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Non tutte le Piccole e Medie Imprese italiane comprendono che l’internazionalizzazione rappresenta un fattore di crescita decisivo: l’espansione internazionale è un’opportunità strategica che le aziende possono perseguire, a prescindere dalla loro dimensione. Naturalmente sono fondamentali alcuni fattori endogeni, come i mercati di riferimento, le capacità dell’imprenditore e del management, la sensibilità verso l’innovazione. Ma, in generale, i mercati internazionali non aspettano altro che le nostre imprese arrivino: tutto sta nel come e nel quando.

Se nel processo di apertura all’estero le aziende italiane sono, pur con difficoltà, ben avviate verso un consolidamento di processo, è la capacità di attrazione di investimenti esteri che l’Italia mostra in questi ultimi anni a far pensare.

Il nostro Paese detiene uno stock di investimenti diretti di circa 374 miliardi di euro, ovvero circa la metà di quanto possono esprimere Francia Spagna e Germania.

Perché siamo così indietro?

Tralasciando per un attimo tabelle e classifiche internazionali, più o meno prestigiose e più o meno solide, ho fatto una cosa molto semplice: ho chiesto a manager apicali di gruppi e di aziende straniere con le quali abbiamo rapporti di lavoro come vedono l’Italia e dove risiede a loro giudizio la difficoltà nel fare buon business nel nostro Paese.

Lungi da me la pretesa di offrire un elemento statisticamente valido, ma solo la voglia di dare un’indicazione empirica diretta: cosa è emerso?

Da un lato, pare emergere, l’Italia rappresenta una grande opportunità: mercati solidi, ancora buona capacità di spesa media, infrastrutturazione sufficiente almeno in una parte del Paese, capitale umano importante e ancor più “raffinabile”. Dall’altro un rischio che qualcuno corre oggi a fatica (non foss’altro per il prezzo favorevole del denaro a prestito e per la bassa valorizzazione di molte imprese nazionali che invogliano al boccone saporito).

Le cause che frenano gli investimenti dall’estero e che mi sono state elencate sono probabilmente stranote, ma proprio per questo forse vale la pena qui di ribadirle: una burocrazia insopportabilmente contorta e poco snella, la difficoltà di comprendere il nostro sistema giudiziario (10 anni per una sentenza definitiva?), gli iter autorizzativi spezzettati tra enti e troppo incerti, un fisco poco friendly e naturalmente eccessivo, lo spettro, sempre aleggiante, di una politica che non offra stabilità e visione. Naturalmente, ammettono, ci sono recenti segnali positivi, tantissime energie da ottimizzare, clamorose eccellenze e numerose eccezioni, sia nel settore pubblico che nell’hardware del Paese; la scommessa è tutta qui: far sì che le pur tante eccezioni diventino la regola, e che il Paese giochi “da squadra”. Perché dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Cina, dalla Danimarca, dagli USA è quello che avvertono: bellissimi teatri che ospitano grandissimi solisti non valorizzati da un’orchestra di pari livello.

Attrazione degli investimenti, manca un gioco di squadra

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