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Prigioni e web. Sono questi, secondo la commissione di studio voluta dal governo, i principali ambiti entro i quali si annida e propaga il morbo jihadista nel nostro come in altri Paesi. Si tratta di osservazioni non nuove e suffragate ormai da un numero elevato di casi di jihadisti che hanno cominciato a radicalizzarsi in carcere o sono stati attratti dall’ideologia jihadista, e successivamente reclutati, grazie alla propaganda via web dello Stato islamico.

Il rapporto degli studiosi sottolinea comunque la minore entità del problema per il nostro Paese, la cui scena presenta molte differenze rispetto alle altre nazioni europee. Si registra una sorta di “ritardo” nello sviluppo del fenomeno jihadista a causa della natura più recente del fenomeno migratorio e nella minore presenza delle seconde generazioni, che hanno dimostrato di essere il bacino di reclutamento più importante per i gruppi jihadisti. Questo ritardo non deve condurci, come ha sottolineato il primo ministro Gentiloni, a sottovalutare il problema. Basti pensare alla questione delle carceri, dove si stima che ben il 5% degli 11 mila detenuti di fede islamica desti preoccupazione. Il caso Amri da questo punto di vista appare chiaro nel dimostrarci che le aggregazioni di estremisti in carcere sono un nodo da sciogliere, come il governo ha già cominciato a fare separando tra loro i detenuti del carcere di Rossano Calabro, dove prima erano concentrati i principali elementi condannati per terrorismo, che avevano esultato alla notizia degli attentati dello Stato islamico.

Il web invece appare la questione più complessa. È noto infatti come gli islamonauti alimentino copiosamente la propaganda jihadista sul web e sui social network, che sono diventati gli strumenti di elezione per fare proselitismo. Per neutralizzare questa specifica minaccia ci vorrà una cooperazione tra più governi e con le principali aziende del web, per arrestare tempestivamente il flusso del verbo jihadista rimuovendo i contenuti che possono istigare alla violenza.

La commissione di studio non si è comunque limitata a monitorare il fenomeno, ma è stata prodiga di consigli su come affrontarlo in chiave preventiva. All’approccio repressivo, che usa gli strumenti tradizionali del law enforcement, gli analisti ascoltati da Palazzo Chigi hanno suggerito di affiancare azioni volte a promuovere la cosiddetta de-radicalizzazione. Si tratta, in altre parole, di usare tutti gli strumenti a disposizione di una comunità per individuare precocemente soggetti a rischio in modo da allontanarli con la persuasione dal sentiero del jihad. Questo è un approccio ormai in voga in numerosi Paesi ed è noto con l’espressione “Countering Violent Extremism” (CVE): un insieme di conoscenze e pratiche atte a far sì che l’estremismo islamista sia preso di mira con misure ad hoc e affrontato, sia individualmente che collettivamente, con l’ausilio di operatori specializzati. La commissione auspica anche la costruzione di una contronarrativa che contrasti la seduzione dell’utopia califfale.

Vengono invocate infine anche ulteriori azioni rivolte alla comunità islamica nella sua interezza, nel presupposto che l’integrazione faccia da antemurale alla radicalizzazione. Sconfiggere il terrorismo è insomma un compito multidimensionale che non può prescindere dal coinvolgimento della società nel suo insieme.

Paolo Gentiloni

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