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Cinquantamila baghdadisti uccisi dai raid aerei della Coalizione a guida americana, 180 alti dirigenti della giunta militarista guidata dal Califfo (tra i quadri storici, ormai praticamente manca solo Abu Bakr al Baghdadi, la cui taglia è stata aggiornata a 25 milioni di dollari dal dipartimento di Stato). Diciassettemila incursioni aeree, in gran parte condotte da velivoli americani (solo 4500 complessivamente quelle degli alleati). Costo dei raid: 4-5 milioni di dollari al mese per l’Isis. Duecentomila dollari è invece il costo per ogni singolo combattente dello Stato islamico eliminato secondo una stima a spanne, ma condivisibile, di Liz Sly del Washington Post.

IS: COMBATTERE IL TERRORISMO E LO STATO

Questi sono alcuni dei dati comunicati dal Pentagono – ormai nella fase uscente dell’amministrazione, e forse anche per questo tira le somme di due anni di guerra – per l’azione contro il Califfato come realtà statuale, poi c’è stato l’enorme lavoro che ha impiegato intelligence e militari di mezzo mondo: il contenimento, con falle, della dimensione terroristica dell’IS. Il 13 dicembre, martedì, il Pentagono ha annunciato di aver eliminato con un raid aereo di precisione tre terroristi dello Stato islamico: Salah Gourmat, Sammy Djedou e Walid Hamman. I primi due coinvolti nella pianificazione della strage di Parigi, l’altro era un reclutatore a distanza le cui tracce erano state reperibili tramite un collegamento con un aspirante kamikaze belga. L’attacco aereo che ha ucciso i tre stragisti è avvenuto a Raqqa, la roccaforte siriana dello Stato islamico (il Pentagono due mesi fa aveva detto di aver rintracciato informazioni su possibili riunioni per pianificare le fasi finali di azioni terroristiche in Occidente in corso proprio a Raqqa). Gli Stati Uniti, e le forze della Coalizione che Washington sta guidando da due anni contro l’Isis stanno martellando oltre che la capitale del Califfato, Mosul in Iraq, anche l’area centro settentrionale della Siria per preparare la mossa finale verso la cittadella siriana del Califfo, centro operativo nevralgico. Alle operazioni aeree, che vengono aggiornate dai dati diffusi dal centro media dell’operazione Inherent Resolve, su Raqqa (e anche su Mosul) Washington ha aggiunto dei reparti di forze speciali che supportano da vicino i miliziani curdo-arabi inclusi nel raggruppamento che prende il nome di Syrian Democratic Force. Il Pentagono ha annunciato quattro giorni fa che in vista dell’inizio della battaglia finale a Raqqa gli Stati Uniti invieranno ulteriori forze speciali (sono già 300). Ciliegina sulla torta: il 16 dicembre il rapporto giornaliero sugli attacchi dell’operazione americana Inherent Resolve parlava di 10 raid nell’area di Palmira con i quali i bombardieri americani hanno distrutto 14 veicoli armati e altra artiglieria dei baghadadisti: probabilmente si trattava di quelli sottratti ai russi e ai siriani durante l’offensiva sulla città storica di pochi giorni fa.

LA PROPAGANDA

Eppure, nonostante queste evidenze (per dire, gli stessi media dell’IS hanno scritto messaggi di addio ai loro leader uccisi dalle bombe americane), le veline propagandistiche russe sostengono il contrario. Per esempio, la linea di Mosca per difendere proprio la perdita di Palmira parte da Raqqa. “La pausa dei raid della Coalizione americana su Raqqa è stata creata per permettere al Daesh di attaccare Palmira” titolava Sputnik, mente il presidente siriano Bashar el Assad andava in onda su un altro media del Cremlino, Russia Today, a dire che lo Stato islamico era più forte perché riceve aiuti dagli americani. Altrove invece si è cercato di giustificare l’imbarazzante arretramento subito dai governativi nella città storica come una contromossa dell’IS per distogliere l’attenzione dalla sconfitta che i ribelli stavano subendo ad Aleppo: però si è dimenticato di dire che dal 2014 lo Stato islamico ad Aleppo non c’è più ed è stato cacciato dalla città a fucilate da quegli stessi ribelli che la Russia e il regime siriano hanno schiacciato mentre perdevano Palmira. Ossia: russi, siriani e iraniani si sono concentrati sul riprendere la città di Aleppo, dove non ci sono i baghdadisti, e hanno abbassato le difese e la concentrazione su Palmira, dove invece l’IS era pronto da mesi per rilanciare l’assalto alla città persa a marzo. E intanto i baghdadisti si stanno avvicinando alla base T4, importante snodo aereo nella provincia di Homs, a qualche decina di chilometri più a ovest di Palmira.

L’OPERA DI MOSCA

Per sintetizzare la situazione, si possono utilizzare le parole di Daniele Raineri, giornalista del Foglio esperto di Stato islamico, che ha scritto su Twitter: “La caduta di Palmira dovrebbe aprire gli occhi: la Russia ottiene poco contro l’Isis. Meno dell’America, meno della Turchia, meno dei libici”. Ovvero la caduta di Palmira e la conquista di Aleppo sono la miglior spiegazione su quali sono i punti più importanti nell’agenda per Mosca, Teheran e Damasco. Però la Russia riesce a vendere meglio a livello mediatico le proprie azioni. È innegabile che l’intervento russo sia stato un game changer nelle dinamiche siriane: Mosca ha raggiunto il proprio obiettivo, puntellare il regime e renderlo più forte, e la conquista di Aleppo è l’ultimo step cronologico di questo piano. I russi hanno preso il controllo dei cieli siriani e hanno obbligato chiunque voglia muovere, fisicamente o diplomaticamente, qualcosa in Siria a passare sotto la propria autorizzazione (diretta o indiretta). Ma l’intervento russo non riguarda la lotta allo Stato islamico: l’unica operazione condotta, quella a Palmira, è finita male, tra il disinteresse strategico e la disorganizzazione, e al momento là l’IS ha ri-vinto. Mosca non è sul fronte più avanzato contro il Califfato, non combatte le sedi logistiche dei terroristi che hanno colpito nel mondo, ma segue un’agenda di interessi personali, che passa da Damasco e arriva fino a Latakia e Tartus, consolidate basi aerea e navale russe sul Mediterraneo.

(Foto: Wikipedia)

La guerra a Isis fra numeri e propaganda

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