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Papa Francesco ha chiuso l’Anno Santo straordinario della misericordia con una Lettera sul “cuore che ha compassione” (miseri-cor-dia). Non si è riferito solo all’evento, un po’ snobbato dai pellegrini. Il suo richiamo era a uno dei fondamenti della fede cristiana, che è la religione della misericordia.

E lo ha fatto con il richiamo ad un episodio esemplare narrato soltanto nel Vangelo secondo Giovanni (8,3): Gesù salva una donna adultera dalla lapidazione. Perché ogni uomo è un peccatore e nessuno può per primo scagliare la pietra.

Gesù l’assolve, a condizione che non lo faccia più. Ha ragione il Papa quando scrive: “Nessuno di noi può porre condizioni al perdono divino”. Giustissimo, è Dio stesso che ha posto delle condizioni, neppure lui può assolvere, se manca il pentimento del peccatore. La Lettera del Papa prende il titolo da una espressione forte di S. Agostino, tratta dal suo Commento al Vangelo di Giovanni: “Uno alla volta gli ebrei se ne andarono. E rimasero solo in due, la misera e la misericordia” (misera et misericordia; Bergoglio ha capovolto i termini: Misericordia et misera). Non c’è colpa tanto grande di cui Dio non abbia misericordia, dato che Egli condanna il peccato, non il peccatore. La condizione della misericordia è il pentimento: “Vai, donna, e non peccare più”.

Nella prassi della confessione, purtroppo oggi uno dei sacramenti più snobbati dal popolo, la Chiesa aveva elencato un certo numero di peccati che non possono essere cancellati da un semplice sacerdote, ma solo da un Vescovo e da un suo delegato. È il caso dell’aborto: “Un abominevole delitto, di chi lo chiede e di chi lo esegue” (Catechismo, 2271); “Chi lo procura è scomunicato» (Codice diritto canonico, 1398; il Papa ha promesso che questo comma verrà modificato).

Cosa cambia dopo la Lettera di Papa Francesco? Non la gravità della colpa. E neppure l’obbligo del pentimento e della penitenza. Cambia il ministro che assolve. Che ora può essere qualunque sacerdote. Non si tratta, dunque, di un mutamento teologico, ma pastorale: l’assoluzione dei peccati è democratizzata. Del tutto comprensibile nell’attuale momento che è di proliferazione dell’aborto, sia di quello chirurgico che di quello chimico: anche la pillola del giorno dopo può essere l’eliminazione di una vita appena sbocciata. Una volta, l’aborto creava una terribile prova, ora è una prassi quotidiana, assistita e pagata dal Welfare. Lo fanno soprattutto donne sposate con uno o due figli. Col conforto della cultura dominante, che lo considera una conquista di civiltà.

Nei duemila anni di vita, la Chiesa si è trovata di fronte al problema di accettare dottrine e condotte, che per lungo tempo aveva condannato e proibito. La tecnica seguita è sempre stata quella di riaffermare la validità della tradizione, nel momento stesso in cui non poteva non cambiarla. Non si tratta di opportunismo, ma di “aggiornamento” (Giovanni XXIII), ossia della consapevolezza dei mutamenti storici, che pongono nuovi problemi a richiedono nuove risposte. Come rispondere alle due tendenze per ora irreversibili in Occidente della crisi del pudore e del senso del peccato?

Pochi pontefici sono stati abili come il Papa attuale in questo mix di conservazione dei dogmi, così poco conosciuti dal popolo, e di aperture buoniste, tanto richieste dalle masse. Bergoglio, in genere, fa precedere, all’annuncio di mutamenti sostanziali e anche poco comprensibili, la difesa della tradizione. La lettera che concede a tutti i sacerdoti l’assoluzione degli abortisti è stata preceduta, il 15 scorso, da un discorso ai Medici cattolici: una martellante condanna di aborto ed eutanasia che più conservatrice non poteva essere. Seguita dalla lettera che ne favorisce la relativizzazione e minimizzazione.

Chi conosce la storia, sa bene che questo metodo raggiunse la massima efficacia con i gesuiti. Galileo fu condannato nel primo processo da un cardinale della Società di Gesù, san Roberto Bellarmino, per l’eresia del moto della terra attorno al sole. Ma, nello stesso tempo, lui stesso e gli scienziati gesuiti studiavano e divulgavano le teorie di Copernico. I medesimi condannavano Machiavelli come anticristo, ma enunciavano la teoria della liceità dell’assassinio dei sovrani (“monarcomachi”) e della possibilità per il principe di sospendere le norme morali (“ragion di stato”).

Anche la semantica usata da questo Papa è un mix di princìpi teologici indiscutibili e di larghissime aperture pastorali: “L’aborto è un peccato gravissimo, ma ; chi lo commette si macchia di una orribile colpa, però …”; “sui gay nulla cambia, tuttavia”. Ciò ch’egli si propone è di essere ascoltato da un popolo, che ormai ha perduto in gran parte i princìpi e le consuetudini cristiane. Bergoglio si definisce il Papa della “porta spalancata”. Certo la “porta chiusa” (Huis clos) è degli atei come Sartre, il cristianesimo la tiene aperta perché sa bene che l’uomo è sempre oltre l’uomo e che ciascuno in qualunque momento può trovare la via giusta.

Ma aperta non significa spalancata, come vorrebbe papa Francesco. Cristo ci dice che la porta è aperta, ma anche stretta: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, molti cercheranno di farlo, ma quelli che si salvano sono pochi” (Lc 13, 24). Non così stretta come voleva Gide (nel romanzo La porte etroit), ma anche socchiusa e che richiede un difficile e continuo impegno per passare, come capì Simone Weil: “Questo mondo è la porta chiusa. È una barriera e nello stesso tempo un passaggio. Apriteci dunque la porta e vedremo i frutteti, berremo l’acqua fresca ove la luna ha posto la sua traccia” (nei Quaderni).

Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Papa Francesco Jorge Maria Bergoglio

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