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Il 15 novembre, lo spread tra titoli di stato tedeschi e quelli italiani ha raggiunto, e leggermente superato, quota 166. Ancora più preoccupante è che il divario con i bonos spagnoli si ponga su circa 60 punti di base.

Da un lato, sono tornate le giornate in cui ogni sera anche le massaie di Voghera (ossia l’uomo della strada) guarda con ansia allo spread. Il governo, nella campagna referendaria, sostiene che l’aumento dello spread all’avvicinarsi del 4 dicembre, sia il frutto della timore dei mercati internazionali del “salto nel buio” che farebbe l’Italia in caso di vittoria, al referendum, del No e della caduta dell’esecutivo. L’opposizione replica che, come in Edipo Tiranno di Sofocle, il Presidente del consiglio è l’unico dell’accorgersi che la causa dell’andamento dello spread è lui, con economia allo sbando dopo circa tre anni di governo, liti continue con l’Unione europea, difficile marcia indietro nei confronti degli Stati Uniti (dopo essersi fatto sostenere da Obama sta ora tentando di allacciare rapporti amichevoli con Trump) e tentativi di recuperare voti, all’interno sia dalla destra sia dai movimenti populistici.

Indubbiamente, ci sono componenti politico-elettorali nell’aumento dello spread. Tuttavia, sarebbe errato, a mio parere, porre l’accento su questi elementi. Anche ove Renzi decidesse di rimettere il mandato e di posporre sine die il referendum costituzionale, lo spread continuerebbe a darci preoccupazioni per ragioni strettamente economiche e finanziarie.

In primo luogo, l’economia reale sta entrando di nuovo in deflazione come confermano i più recenti dati Istat sull’andamento dei prezzi, delle produzione e anche di quell’occupazione che sarebbe dovuto essere il vanto della politica della legislatura in corso. Istituti di ricerca che non hanno pregiudizi nei confronti dell’esecutivo (come Ref e Prometeia) affermano, nelle loro consuete previsioni di fine anno, che nel 2017, l’Italia rischia di avere un tasso di crescita inferiore a quello della stessa Grecia, vero e proprio fanalino di coda dell’eurozona.

In secondo luogo, in un quadro del genere, lo stock di debito pubblico non può che aumentare, sia in termini assoluti sia rispetto al Pil. In base al Trattato di Maastricht lo stock di debito pubblico italiano avrebbe dovuto raggiungere in questi anni circa il 60 per cento del Pil, mentre è attorno al 135 per cento. Metà circa dello stock di debito pubblico italiano è in mano a operatori stranieri che chiedono naturalmente rendimenti più elevati ogni volta che il Tesoro si rivolge al mercato per rifinanziare titoli in scadenza.

In terzo luogo, la legge di bilancio suscita apprensioni: il disavanzo programmato avrà come conseguenza principale quello di aumentare il debito e di renderlo più fragile sul piano internazionale.

In quarto luogo, nonostante alcune eccellenze tecnologiche che può vantare l’Italia, abbiamo perso il 25 per cento della capacità produttiva nel manifatturiero e ci presentiamo con un sistema bancario denso di problemi.

In quinto luogo, si è alle prese con una riforma istituzionale che distrae governo, parlamento e opinione pubblica dai veri problemi dell’economia.

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