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Per adeguarsi alle immagini, diciamo così, dell’attualità purtroppo sismica di tante parti d’Italia, sia di quelle evacuate per le distruzioni subite sia delle altre dove ogni tanto tremono pavimenti, lampadari e infissi per onde telluriche provenienti da centinaia di chilometri di distanza, un bel po’ di scosse sono cadute nelle ultime ore anche sul processone in corso a Palermo da ormai più di tre anni per le presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista del 1992  e 1993. A procurargliele sono state le circa 500 pagine della sentenza finalmente depositata, sempre a Palermo, per l’assoluzione dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Che diversamente dagli altri imputati famosi, fra generali, politici e delinquenti incalliti, ha voluto essere giudicato col rito abbreviato uscendone assolto, appunto, il 4 novembre dell’anno scorso.

La giudice Marina Petruzzella, pur essendosi presa ben più dei tre mesi ordinari per depositare le motivazioni del suo verdetto favorevole all’imputato, ma avendo probabilmente dalle sue il proprio carico di lavoro e la complessità, oltre che il volume, dei documenti da analizzare, ha finito per smontare non solo gli elementi a carico del povero Mannino ma anche buona parte di quelli a carico di altri imputati ancora sotto processo nel filone ordinario. Che si svolge in tempi e modi che di ordinario hanno solo la concezione un po’ anomala che dell’ordinarietà, appunto, si ha nel nostro Paese, specie nei tribunali.

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Questo processo ancora in corso a Palermo fu impostato ai tempi, fra gli altri, del procuratore Antonio Ingroia. Che però ha avuto poi la possibilità di lavorare per l’Onu in Guatemala, di candidarsi inutilmente nel 2013 alla guida del governo nazionale, di dimettersi dalla magistratura non condividendo la destinazione assegnatagli al rientro dalla sua fallita esperienza politica, di assumere incarichi alla regione siciliana governata da Rosario Crocetta, di fare l’avvocato, di annunciare o minacciare romanzi in cui spargere frammenti di memoria di intercettazioni sentite e lette da pubblico ministero ma distrutte perché irrilevanti ai fini giudiziari per i quali erano stato disposte o trascritte, fra cui alcune riguardanti l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e infine di partecipare in questi giorni alla campagna referendaria sulla riforma costituzionale, naturalmente sul fronte del no. E dove sennò ?, visto l’orgoglio col quale durante la carriera di magistrato egli soleva parlare anche in assemblee politiche giustificando la partigianeria che molti gli rimproveravano, anche fra i suoi colleghi, con la qualifica che si attribuiva, letteralmente, di “partigiano della Costituzione”: quella “più bella del mondo”, decantata a lungo anche dal buon Roberto Benigni, fino a quando qualcuno non ha fatto scoprire al comico che essa contiene anche un articolo, il penultimo, numero 138, in cui si indicano i modi in cui può essere modificata. Capita a tutti, si sa, di non leggere libri e libretti sino all’ultimo o penultimo rigo, e tanto meno di arrivare alle disposizioni transitorie e finali.

Pur abbandonato da cotanto magistrato, convinto di avere trovato le chiavi giuste di lettura della storia italiana degli ultimi trent’anni, se non di più, il processo della cosiddetta trattativa, chiamato dai cronisti giudiziari anche processone per il numero di imputati e di testimoni che stanno sfilando davanti alla Corte –ripeto- da più di tre anni, e ai quali si vorrebbe da qualche tempo aggiungere anche l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella, non essendo bastato il predecessore Giorgio Napolitano, e non essendosi fatto in tempo ad ascoltare in buone condizioni di salute quello ancora precedente, il povero Carlo Azeglio Ciampi, nel frattempo morto; il processone, dicevo, sta lì con tutta la sua potenza di fuoco a far tenere il fiato sospeso a tanta gente, nel bene e nel male.

Quando arrivò, l’anno scorso, l’assoluzione di Mannino, per non parlare dell’assoluzione del generale dei Carabinieri Mario Mori in un altro processo ancora per gli stessi o analoghi fatti, i pubblici ministeri che stanno portando avanti il lavoro del loro ex collega Ingroia non si scomposero. Essi annunciarono, pur fra qualche dichiarazione più cauta del loro superiore d’ufficio, un ricorso in appello, prima ancora di conoscere le motivazioni della sentenza, e proseguirono imperterriti sulla loro strada.

Ora che le motivazioni sono state finalmente depositate, vedremo se i pubblici ministeri si appelleranno davvero, e con quali argomenti. Ma, soprattutto, se i giudici vorranno tenere conto della sentenza quando dovranno finalmente pronunciarsi pure loro, senza sperare –come i soliti maligni già sospettano- che in caso di ricorso dell’accusa essi potranno sempre ritenere l’assoluzione di Mannino non definitiva e perciò disinteressarsene, o quasi. Chi vivrà, insomma, vedrà.

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Intanto la giudice Marina Petruzzella ha definito nero su bianco “non adeguati gli elementi indiziari per affermare che ci fu da parte di Mannino il genere di intereferenze di cui è accusato”: interferenze tradotte nel reato di “minaccia a corpo politico dello Stato”, per indurlo a trattare con la mafia facendole rinunciare a compiere altre stragi e ad ammazzare anche lui, che era stato minacciato appunto di morte dai mafiosi.

In verità, la giudice ha scritto anche di “ragioni poco commendevoli” che avrebbero determinato alcuni “comportamenti” messi in opera da Mannino per difendersi dalle minacce di morte pervenutegli, ma di incitamento alla trattativa e quant’altro neppure a parlarsi, se non in “una sorta di suggestiva circolarità probatoria” avvertita dall’accusa. Non parliamo poi del credito ottenuto negli uffici giudiziari da Massimo Ciancimino, il figlio dello scomparso ex sindaco mafioso di Palermo, Vito.

Il giovane s’infilò notoriamente nelle indagini come teste con quella storia del “papiello”, mostrato per indicare le condizioni poste dalla mafia per finire di sparare. Papiello “frutto –ha scritto la giudice Petruzzella- di una grossa manipolazione” e indicativo della “strumentalità del comportamento processuale” di Ciancimino. Il quale “ha tenuto sulla corda i pubblici ministeri” e “tenuto alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia”.

Ce n’è così, credo giustamente, anche per noi giornalisti, di carta stampata e di televisione, oltre che per i magistrati dell’accusa.

Calogero Mannino e gli scossoni al processone di Palermo su Stato-mafia

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