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Che curiosa Repubblica è quella italiana, che festeggia i suoi primi 70 anni assumendo come data di nascita il primo giorno del referendum istituzionale del 1946, in cui si votò, a dire il vero, anche nella giornata successiva. E per la proclamazione, neppure definitiva, dei risultati si dovette aspettare sino al 10 giugno, con Umberto II di Savoia deciso ad attendere sul suo pur ammaccatissimo trono anche gli altri otto giorni che la Cassazione si era presa per esaminare i ricorsi. Che naturalmente non mancarono, per quanto la differenza annunciata fra la nascente Repubblica e la Monarchia, disfatta dai troppi cedimenti al fascismo e dalla guerra che n’era seguita, seppure conclusa dalla parte opposta a quella in cui era disgraziatamente cominciata, fosse di circa due milioni di voti.

Fu nella notte fra il 12 e il 13 giugno che il governo, con quello che “il Re di maggio”, l’ultimo dei Savoia in carriera, definì “un gesto rivoluzionario”, tagliò la testa al toro e, pur in pendenza ancora di ricorsi che in teoria avrebbero potuto rovesciare la situazione, decise di fare assumere dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi anche i poteri provvisori di Capo dello Stato. E s’intese per tale quello ormai repubblicano.

Eppure De Gasperi, per quanto la figlia Maria Romana si fosse poi detta convinta del contrario, aveva votato nel referendum per la conferma della Monarchia, senza per questo disubbidire al suo partito: la Democrazia Cristiana. Che non aveva dato alcuna indicazione ai suoi elettori, diversamente da altri.

Ad Umberto di Savoia, che aveva già dovuto contare qualche giorno prima morti e feriti negli scontri a Napoli sull’ancora incerto risultato del referendum, non rimase che prendere la via dell’esilio partendo il 13 giugno dall’aeroporto di Ciampino per il Portogallo. Dove pure Carlo Alberto di Savoia, autore dello Statuto che sarebbe rimasto in vigore in Italia sino al 1947, si era rifugiato nel 1849 dopo avere abdicato da re del Piemonte e di Sardegna a favore di Vittorio Emanuele II, sotto il cui trono l’Italia si sarebbe unificata.

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Monarchico, in quello storico referendum istituzionale del 1946, non fu solo Alcide De Gasperi. Lo fu anche Enrico De Nicola, eletto tuttavia il 28 giugno Capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea Costituente, anch’essa partorita dalle urne del 2 giugno. E dichiaratamente monarchico, sempre in quel referendum, con un annuncio pubblicato in un articolo diffuso la settimana precedente, esattamente il 24 maggio, fu anche Luigi Einaudi, eletto presidente della Repubblica l’11 maggio 1948 dalle Camere uscite dalle urne il 18 aprile precedente, e riunite in seduta congiunta, secondo le procedure disposte dalla Costituzione in vigore dal primo giorno di quell’anno.

La Repubblica insomma, pur celebrata oggi con tante fanfare, non era riuscita a muovere i suoi primi passi senza affidarsi ai piedi e alle mani di monarchici.

Ciò è curiosamente accaduto, in qualche modo, non solo alla Repubblica intesa in carne, ossa e mattoni, con i suoi presidenti, i suoi corazzieri e il suo Quirinale, che d’altronde aveva già ospitato Papi e Re, ma anche alla Repubblica di carta: quella fondata con innegabile successo editoriale nel 1974, senza le traversie di un passaggio di regime, da Eugenio Scalfari. Che, intervistato di recente, ha onestamente riconosciuto di avere votato nel 1946 anche lui per la conferma della Monarchia, convinto dalla lettura di Benedetto Croce ch’essa fosse capace di garantire meglio della Repubblica la laicità dello Stato, cioè la sua autonomia dalla Chiesa.

Eppure noi tutti, anche Scalfari, che avrà sicuramente avuto modo di parlarne col tanto declamato amico Papa Francesco, dobbiamo proprio a Croce quel magnifico saggio del 1942, scritto di getto dopo una notte insonne per spiegare “perché non possiamo non dirci cristiani”. Perché, cioè, non possiamo non riconoscere la rivoluzione apportata dal Cristianesimo “nel centro dell’anima, nella coscienza morale”, facendole acquisire “una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, fino ad allora mancata all’umanità”.

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Oggi, a 70 anni, più o meno in termini di giorni e di ore, dalla nascita della Repubblica dobbiamo accontentarci in Italia di altre certezze, o di altri dubbi, come preferite.

Dobbiamo capire, o scoprire, se è stato davvero un affare o un disastro partecipare al sogno di un’Europa unita. Se la riforma costituzionale targata Renzi farà o no la stessa fine della riforma targata Berlusconi e bocciata dagli italiani con un referendum nel 2006. E, non facendola, come naturalmente spera il presidente del Consiglio, si rivelerà davvero una riforma o la “schiforma” denunciata dai 56 giuristi del no e dai loro megafoni. Se lo stesso Renzi è solo il presidente decisionista, di cui lo stesso Scalfari, pur critico verso la sua riforma costituzionale, ha riconosciuto la conformità, ormai, ai tempi più rapidi della politica in ogni parte del mondo, o sta scivolando verso il “regime” di cui lo accusa un giorno sì e l’altro pure Silvio Berlusconi. Che fu anche lui accusato ai suoi tempi d’oro di vocazione autoritaria da molti che ora gli fanno compagnia nell’azione di contrasto al capo del governo in carica e alla sua riforma costituzionale.

Dobbiamo capire se la Repubblica è ancora quella parlamentare voluta dai Costituenti o non è diventata una Repubblica giudiziaria, dove la nomina del nuovo capo di una Procura, com’è appena accaduto per quella di Milano, appassiona o incuriosisce più della nomina di un ministro o dell’elezione, addirittura, di un capo dello Stato. E’ la Procura, d’altronde, dove si ruppero le ossa i partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica.

Dobbiamo capire, o scoprire, se il futuro della politica sarà ancora dei politici, a livello nazionale e locale, da Palazzo Chigi al Campidoglio, o di un comico che è sinora riuscito a divertire molti italiani anche nelle urne, e non solo nelle piazze e nei teatri.

Dobbiamo capire, o scoprire, se riusciremo a governare il fenomeno dell’immigrazione o ne saremo travolti, da soli o insieme con gli altri che in Europa hanno ripreso l’abitudine di alzare muri e reticolati.

L’Italia sarà anche “migliore di come la si dipinge”, ha appena detto al Corriere della Sera il presidente Sergio Mattarella, che istituzionalmente la rappresenta, ma non mi pare in ottima salute. E’ curva, come altri Paesi, in Europa e oltre, sotto i tanti suoi problemi.

SERGIO MATTARELLA

Come sta davvero la Repubblica italiana

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