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Il xxi secolo si sta caratterizzando per un drammatico cambiamento nella rappresentazione dell’Africa e nelle dinamiche in gioco nel continente. È opportuno ricordare che, alla fine della Guerra fredda, il continente è stato descritto come una terra “senza speranza” (The Economist, 11 maggio 2000), strategicamente insignificante e incapace di cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione. Mentre l’idea della crescente marginalizzazione prendeva piede, le immagini coloniali e gli stereotipi razziali sulla dark Africa hanno trovato nuova linfa nella rappresentazione di un continente di barbari, inghiottito dal caos e privo di qualsiasi storia e cultura.

La trasformazione dell’Africa in una nuova Eldorado per il commercio e gli investimenti è iniziata con la scoperta di nuove sostanziali riserve petrolifere negli ultimi anni 90. Il progresso tecnologico e un ambiente favorevole al business hanno reso possibile lo sfruttamento off-shore dei giacimenti, determinando una rivalutazione del potenziale del continente in un momento in cui i bassi prezzi del petrolio garantivano affari sicuri negli Stati africani. I primi anni del xxi secolo hanno vissuto una serie di aggiustamenti politico-diplomatici in Africa e sul piano internazionale. Nuove forme di mobilitazione multilaterale, come i Millennium development goals, hanno alimentato le iniziative diplomatiche africane, desiderose di porre le fondamenta per una rinascita del continente. Si volle dare priorità agli investimenti privati, attraverso l’adozione di New partnership for Africa’s development (Nepad) e di African peer review mechanism (Aprm), ideati per monitorare lo stato di diritto e la good governance. L’atto costitutivo dell’Unione africana (Ua) ha rappresentato una forte novità circa la risoluzione dei conflitti e la protezione dei cittadini degli Stati africani. Fuori dal continente, Ong, celebrità e un’opinione pubblica mobilitata hanno contribuito a sostenere misure per l’alleggerimento del debito e per la lotta contro la povertà. Tale momentum ha avuto il suo climax nel 2005 (l’anno dell’Africa), quando il G8 di Gleneagles ha definito un pacchetto di aiuti per le economie indebitate del continente.

In questo, il coinvolgimento della Cina e degli altri Brics ha agito da apripista. La ricerca di risorse, mercati e alleanze globali da parti di questi Paesi ha contribuito a ridefinire il concetto di Africa come nuova frontiera rispetto alla mera questione dell’approvvigionamento di materie prime. I potenziali mercati interni africani sono stati riscoperti dagli investitori privati di tutto il mondo. Ciò ha incluso però anche la diaspora africana, frutto della convinzione che la solvibilità dei mercati e la crescita demografica fossero una sfida minore rispetto a sfide nuove e non ancora sfruttate.

L’idea di una frontiera africana è stata legata, allora come oggi, all’impegno internazionale, alle dinamiche infrasociali, alle innovazioni della connettività avanzata (frutto della diffusione delle nuove tecnologie), alla deframmentazione dei mercati (con grandi investimenti in sviluppo delle infrastrutture) e alla realizzazione di politiche pubbliche smart da parte degli Stati africani. La crisi finanziaria del 2008 è stata un primo test per le dinamiche che attraversano il continente. L’idea di Africa come nuova frontiera si è tradotta in massicci investimenti in estrazione, agricoltura, infrastrutture, associati ai cospicui flussi finanziari che hanno alimentato la corruzione e impedito la capacità statale di monitorare e controllare il loro uso. Le opportunità di breve periodo, associate allo sfruttamento simultaneo delle risorse naturali, hanno agito come un invito a minimizzare il loro stesso impatto sulle comunità globali, gli ecosistemi e le capacità statali. Con il collasso dei prezzi delle materie prime dal 2013, tali limiti sono apparsi ancora più evidenti. Oggi, l’emergente mantra africano si confronta brutalmente con l’immagine di un continente in cui le società devono ancora risolvere questioni-chiave come la disuguaglianza sociale, il malgoverno e l’insicurezza, una combinazione emblematicamente evidenziata dal flusso incessante di giovani migranti desiderosi di lasciare i propri Paesi per trovare rifugio e lavoro fuori dal continente, al di là del Mediterraneo.

La convinzione del passato, secondo cui la combinazione di favorevoli prezzi delle materie prime e alti tassi di crescita economica avrebbero impattato positivamente sulle disuguaglianze sociali e sulla cattiva governance, non appare più così valida. Il calo legato alle materie prime si traduce nel ritorno del deficit di bilancio, di livelli di debito critici e dell’urgente necessità di diversificare le economie locali rispetto alla dipendenza da minerali e altre materie prime. I dibattiti relativi ai disagi ereditati dalla dominazione olandese, come la maledizione delle risorse o la trappola delle materie prime, sono tornati alla ribalta. Tuttavia, le prospettive di crescita e sviluppo del continente oggi hanno poco a che fare con quelle che hanno prevalso negli anni 90. La diversificazione degli attori desiderosi di impegnarsi nel continente, la capacità degli Stati africani di attuare politiche pubbliche e l’ascesa dell’imprenditoria africana, sono tra i pilastri di un’equazione completamente differente.

(L’articolo è tratto dall’ultimo numero della rivista Formiche)

Quali devono essere i fattori di crescita per l'Africa

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