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La crisi della leadership di cui si parla spesso e da parecchio va ricondotta anche a quella che il Corriere della sera ha giustamente chiamato “l’ossessione della simpatia”, cioè quella generalizzazione dell’atteggiamento, tipico dell’età adolescenziale, per cui facciamo dipendere in misura determinante la nostra identità dall’approvazione altrui. Un atteggiamento importato in Italia soprattutto attraverso i serial televisivi statunitensi di ambientazione studentesca, in cui il desiderio di “popolarità” è un tema dominante, e che i social network hanno contribuito a diffondere in una misura mai conosciuta prima. La metà della popolazione è presente su Facebook dove moltissimi italiani, basta scorrere i post per rendersene conto, vivono in connessione permanente. Conosco direttamente un personaggio di minima notorietà pubblica che, approdato da pochi mesi su Fb, è immediatamente finito in un rapporto compulsivo che gli ha consentito di guadagnare rapidamente molti “amici”, successo che però ha alimentato ancor più la sua ossessione: il circolo vizioso tipico di ogni “addiction”.

A livello politico, il fenomeno si declina nella problematica del “consenso”. Chi dirige una istituzione, un’amministrazione, un gruppo umano e sociale, anziché cercare di impartire il proprio indirizzo si fa condizionare, cerca di interpretare e intercettare i desiderata prevalenti per assicurarsi la permanenza in carica. Questo ben noto meccanismo porta ad attuare raramente misure di rigore necessarie ma impopolari, a privilegiare quelle demagogiche di effetto sicuro e immediato e, ciò che è più dannoso per il Paese, a non impegnarsi in opere e riforme a lungo termine i cui benefici siano troppo differiti nel tempo oppure ad annunciarle senza alcun serio impegno.

In tale noto scenario, il Papa si inserisce come un caso emblematico e specifico allo stesso tempo. La caratteristica peculiare della guida della Chiesa da parte di Bergoglio è infatti la simpatia propriamente detta, la sua facilità relazionale istintiva, innata. Chi lo abbia visto in udienza pubblica avrà notato come, a bordo della “papamobile”, compia il periplo di piazza San Pietro senza saltare una sola delle transenne dove la folla si accalca per salutarne il passaggio, con un modo di fare che ricorda le entrate in scena di Roberto Benigni: un escamotage teatrale e comico che strappa il sorriso, l’applauso, il grido di emozione e sorpresa anche a chi non ne sia un fan sfegatato.

Tutto ciò che ha contribuito a creare il personaggio, dalle telefonate alle battute, appare e sicuramente è naturale, spontaneo: il che però mal si concilia con il controllo e con l’auto-controllo che nel mestiere di Pontefice dovrebbe essere un elemento determinante, come fa notare Camillo Langone in un suo pezzo sul Giornale concluso con un provocatorio rimpianto dell’“epoca dei Papi noiosi e precisi”. Mentre, su Libero, Filippo Facci ha non meno motivatamente messo in corto circuito la raccomandazione impartita da Francesco ai giornalisti – “le chiacchiere uccidono” – con la sua logorrea.

Del resto, come per tutti, anche per il Santo Padre vale la regola di comunicazione per cui quella mediatica non è una rappresentazione ma una costruzione della realtà. La cosa appare più evidente nei casi in cui gli capiti di assumere posizioni che ledono il suo feeling empatico con le folle e con il pubblico. Si pensi ai gay, che hanno lodato il Santo Padre per un’apertura molto più presunta che reale, costruita su frasi di vicinanza umana ma non su sostanziali innovazioni dottrinarie, gelati dopo l’attacco sferrato da Tbilisi sulla teoria gender come “grande nemico” del matrimonio. Salvo ieri aggiungere, in aereo con i giornalisti: “Nella mia vita di sacerdote, di vescovo e di Papa io ho accompagnato persone con tendenze e anche pratiche omosessuali. Li ho avvicinati al Signore e mai li ho abbandonati. Le persone si devono accompagnare, come faceva Gesù. Quando una persona che ha questa condizione arriverà davanti a Gesù, lui sicuramente non dirà: vattene via perché sei omosessuale. No. Io ho parlato di quella cattiveria che oggi si fa con l’indottrinamento della teoria gender”, criticando la “colonizzazione ideologica”. Ma si ponga anche memoria a quando Francesco se l’è presa con la pet-mania – “Quanta gente attaccata a cani e gatti e poi lascia sola e affamata la vicina” – e il popolo dei social che vive di foto e video di cuccioli gli si è rivoltato contro.

Certo, si potrebbe obiettare che si tratta di incidenti di percorso. Che chiacchiere e battute hanno fatto guadagnare al Papa una popolarità immensa, davvero universale. Peccato solo che non si traduca in termini concreti di vocazioni o pratica religiosa, nemmeno di afflusso turistico: nella capitale in occasione del Giubileo straordinario della misericordia, secondo quanto afferma Giuseppe Roscioli, presidente di Federalbeghi Roma, le cose non stanno andando bene, pur considerando la tara del rischio terrorismo. E c’è un dato curioso ma ineludibile: il favore a Bergoglio è inversamente proporzionale alla vicinanza alla Chiesa: massimo tra gli atei, minimo tra i frequentanti, come se lo si amasse in quanto “anti-cattolico” anziché come capo dei cattolici.

Papa Francesco

Papa Francesco, le leadership simpatiche e tic dei politicamente corretti

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