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Lunedì, nel giorno in cui il nuovo governo avrebbe dovuto ottenere l’avallo politico dal parlamento in esilio a Tobruk, via libera saltato per la settima volta a causa della mancanza del quorum, il premier libico Fayez Serraj riceveva a Tripoli il ministro degli Esteri inglese Philip Hammond, accompagnato dall’ambasciatore Peter Millet. Hammond è l’ultimo in ordine di tempo degli alti diplomatici occidentali che hanno visitato di persona la Libia (prima di lui, per esempio, sono passati i pari grado italiano, tedesco e francese), in questo momento delicatissimo della crisi, con il governo in bilico sulla fiducia politica, milizie dell’opposizione che tornano combattive a Tripoli, lo Stato islamico sulla difensiva in Cirenaica.

GLI INTERESSI

Ma le dimostrazioni di rispetto e apertura a Serraj si portano dietro anche una competizione tra i paesi europei (e di mezzo ci sono pure i turchi, il premier libico è stato ad Istanbul il 13 aprile per un “islamic summit”, e altre nazioni del mondo arabo), che vogliono giocare per primi la propria influenza a Tripoli. La posta in palio è alta, la Libia è ricca di gas e petrolio come noto, e il suo fondo di investimento, LIA, è una ricca cassaforte con diramazioni in tutto il mondo economico e finanziario che conta (Citigroup Inc., UniCredit, Banco Santander, Allianz, Électricité de France, Eni, per dirne alcuni). Arrivare per primi a Tripoli significa pure vedersi sbloccati i contratti congelati dalla guerra: dieci giorni fa Massimo Ferrari, Cfo del grande gruppo italiano delle costruzioni Salini Impregilo lamentava con Reuters che l’instabilità politica libica ha bloccato 2,8 miliardi di commesse alla sua ditta. È Serraj che avrà in mano il pallino per sbloccarli.

LA LIA IN ITALIA

Il fondo sovrano libico ha azioni in diverse società italiane, alcune controllate attraverso Lafico (Libyan Foreign Investment Company), altre agganciate a Oilinvest, ossia la rete di distributori Tamoil. Per esempio, il fondo controlla parte dell’azionariato Unicredit (4%) e di Mediobanca (500 milioni di euro di azioni), intorno all’1 per cento di Eni e quasi il doppio in Finmeccanica e altrettanto di Fiat-FCA, e, tra le altre cose, una quota dell’azionariato della Juventus.

LA GUERRA INTERNA

Costituita sotto il regime di Muammar Gheddafi nel 2006 per gestire la ricchezza petrolifera del Paese, dopo che furono sollevate le sanzioni che impedivano al rais partecipazioni all’estero, l’Autorità per gli investimenti libica (LIA) è il più grande fondo sovrano africano, con sedi a Londra e Malta, e ufficio centrale a Tripoli. Come poche cose nel paese (la società petrolifera Noc e la Banca centrale: le altre due) è restata relativamente fuori dagli scontri Tripoli-Tobruk perché protetta da interessi occidentali. Nella Libia a corto di liquidi per il conflitto, è la Lia a fornire alla Banca centrale i soldi per pagare gli stipendi statali, ma al suo interno è da tempo in corso una guerra per il potere. La leadership è detenuta dal 2014 da Hassan Bouhadi, nominato da Tobruk, a cui l’ex presidente del consiglio di amministrazione, Abdulmagid Breish (rimosso per legge perché reputato vicino a Gheddafi), sta facendo opposizione sostenendo che Bouhadi è stato eletto illegittimamente. Quest’ultimo, che si muove da un ufficio a Malta per ragioni di sicurezza, gode del sostegno dell’Onu, mentre Breish si è visto riconoscere il proprio ruolo da una corte tripolina a maggio dello scorso anno e da un altro ex presidente, Abdulrahman Benyezza, che in quei giorni aveva cercato un colpo di mano per riprendere il potere, usando i propri avvocati per intestarsi una causa per risarcimento danni che la Lia ha aperto contro Goldman Sachs e Société Genérale (ree, secondo i libici, di aver promosso investimenti su derivati marci, pagando tangenti alle élite del potere gaddafiano, e intascando ricche consulenze: investimenti persi, che la Lia adesso rivuole indietro, valutandoli intorno ai 3 miliardi di dollari). Breish amministra la parte di patrimonio non congelato dalle sanzioni (circa il 15%), ma anche qui in competizione con Bouhadi, che forte dell’appoggio politico dell’HoR si è creato spazi internazionali: il 30 settembre dello scorso anno, per esempio, è stato a Milano, dove ha incontrato il ministro dell’Economia e Finanza Pier Carlo Padoan.

TUTTO CONGELATO FINO A CHE SERRAJ NON GOVERNA

Mettere le mani sul fondo, che ha più o meno 70 miliardi di dollari investiti all’estero, è stato per lungo tempo tra gli obiettivi in cima alla lista dei due pseudo esecutivi in guerra, ma per il momento tutto resta congelato come la questione della leadership. L’ultima decisione in merito è arrivata dall’Alta corte londinese ad inizio marzo. Il giudice inglese ha chiuso la diatriba definendola “prematura” e confermando il blocco dei beni (deciso nel 2011, prima della caduta di Gheddafi) finché il governo di Serraj non sarà del tutto operativo. A quel punto non ci sarà più motivo di discutere, perché sarà il governo dell’uomo scelto dall’Onu a fare da spalla politica alla Lia e sarà riconvocato il consiglio di amministrazione per nuove elezioni.

Il giudice che ha seguito il caso, William Blair, ha fatto un enorme favore a Serraj: se uno dei due pseudo governi fosse riuscito a mettere le mani sul fondo, si sarebbe assicurato uno dei principali asset del paese, e conseguentemente avrebbe alzato il livello dello scontro con la controparte, sentendosi insignito di legittimazione. A fine marzo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato all’unanimità le sanzioni che bloccano la Lia: sanzioni che, secondo la risoluzione, saranno sollevate non appena l’esecutivo di concordia in Libia sarà in grado di governare e di controllare completamente il fondo.

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