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È impressionante constatare la leggerezza con cui tutti noi commentiamo gli stralci di intercettazioni fatti uscire ad arte e pubblicate con evidenza periodicamente sui giornali. Nessuno più si scandalizza: sembra una cosa del tutto normale che, ad esempio, sulla pubblica piazza si discuta dei rapporti amorosi, o affaristico-amorosi, fra la ex ministra Guidi e il suo ex compagno o marito. Nessuno si ritrae e non partecipa al gioco. E poco importa se quel gioco coinvolge la parte più intima delle “vite degli altri”.

Il Grande Spione Collettivo detta l’agenda al dibattito pubblico, tanto che chiunque vi partecipa è chiamato a rispondere – e lo facciamo con sicurezza quasi fosse appunto un gioco- a questioni tipo se la Guidi fosse succube del suo uomo per amore o se lo seguiva con consapevolezza e razionalità. Quasi che fosse semplice districarsi nei complessi rapporti interindividuali e fra le psicologie delle persone, a maggior ragione quando noi non le conosciamo se non per delle frasi estrapolate dal contesto e selezionate con scopi precisi da agenti più o meno oscuri. A chi fa presente che è illegale pubblicare le intercettazioni e immorale giudicare gli altri solo in base a quel che emerge da esse, in molti ci fanno presente che gravi sono i reati che da quelle intercettazioni emergerebbero.

Ora, a parte il fatto che in tutti questi anni la gravità emersa in un primo momento si è spesso temperata man mano che le indagini e i processi proseguivano il loro corso, anche nei casi in cui ciò non è avvenuto e si è giunto a individuare e a punire reati ben precisi (sarebbe questo e solo questo il compito della magistratura in un paese civile) il prezzo che si è pagato a me sembra troppo alto per la civiltà del diritto e per la civiltà tout court. A poco alla volta, senza che nemmeno forse ce ne accorgessimo, la concezione della giustizia, da formale che dovrebbe essere in un’ottica liberale, è diventata sostanziale, come l’individuazione da parte del legislatore di specie di reati fumosi e indecifrabili come il “concorso esterno” o il “traffico di influenze” sta fra l’altro a testimoniare.

Nel mondo capovolto della civiltà non liberale che abbiamo costruito con le nostre mani la stessa “cultura della legalità”, che (spesso ipocritamente e interessatamente) viene propagandata ai giovani nelle scuole, assume il volto alquanto inquietante di quel virtuosismo moralistico che è stato proprio nella storia dei regimi totalitari o illiberali. Sarebbero necessarie distinzioni e prudenza e la legalità che andrebbe insegnata ai giovani altra non dovrebbe essere che quella che deriva dallo studiare, in primis i classici della nostra tradizione, e dal fare bene e con impegno il proprio dovere.

La sensazione che permane è di una lotta impari fra i pochi che in questo paese non hanno perso il senno e i molti che sono vittime di una cultura politica illiberale e giustizialista che affonda le sue radici nella cultura del dopoguerra, fra azionismo e sessantottismi, rivoluzioni incompiute e restaurazioni auspicate. È questa cultura che, senza che ce ne rendiamo forse conto, la vera tara di questo nostro Paese. E forse, non da ultimo, è la causa principale persino del suo declino economico, oltre che morale. Chiamarla sul tavolo degli imputati non è facile ma sarebbe questo senza dubbio un processo auspicabile seppure, e per fortuna, senza addentellati penali.

Lingotto, 5 stelle, molestie

Perché aborro la giustizia illiberale

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