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Siamo in piena campagna elettorale per le Presidenziali americane, e quindi una battuta polemica verso l’Amministrazione uscente ci sta tutta. Certo, però, sarebbe stato difficile per chiunque esprimersi in termini più duri di quelli usati dall’ex Presidente Bill Clinton, che ha definito gli otto anni di Obama una “awful legacy”, una orribile eredità. L’ha fatto, naturalmente, per sottolineare le grandi doti della moglie Hillary, l’unico candidato in grado di realizzare i cambiamenti economici necessari e ad avere le capacità di un vero Commander in Chief.

È tempo di bilanci, dunque, ed in effetti è stato lo stesso Presidente uscente a fare un resoconto della sua politica estera in una interminabile intervista rilasciata a The Atlantic, una sorta di memoriale dal titolo inequivocabile: “The Obama Doctrine”. Tutto inizia con una data fatidica, il 30 agosto 2013, che segna comunque una pietra miliare nella storia americana: a seconda dei punti di vista, sarà ricordata come il giorno in cui “un Presidente inetto portò a fine prematura il regno degli Usa, unica ed indispensabile superpotenza globale”, oppure come “quello in cui il sagace Barack Obama guardò nell’abisso del Medio Oriente e fece un passo indietro da un vuoto distruttivo”.

L’alternativa nel giudizio richiede una analisi dei due profili strategici della politica estera di Obama: da una parte, il ritiro da Afghanistan ed Irak, conflitti rovinosi in cui gli Usa erano stati coinvolti da George W. Bush; dall’altra, il “nuovo inizio” nei confronti delle democrazie del Medio Oriente e dei Paesi dell’Africa che si bagnano nel Mediterraneo. Sotto quest’ultimo profilo, rileva in modo non secondario la successione nel ruolo di Segretario di Stato, ricoperto da Hillary Clinton nel primo mandato di Obama e da John Kerry nel secondo.

Il venir meno della presenza militare americana in Afghanistan e soprattutto in Irak, la incapacità di portare a buon fine il processo di destituzione di Assad in Siria, il crollo delle istituzioni in Libia a seguito della caduta di Gheddafi, la turbolenza politica in Egitto seguita alla cacciata di Mubarak con l’affacciarsi per la prima volta al potere dei Fratelli musulmani, a cui l’ingresso in politica era stato bandito sin dai tempi di Nasser, hanno dato vita a quattro distinti fenomeni. C’è stato un vuoto di potere, con un conseguente vortice di instabilità, che ha portato alla nascita dell’Islamic State (Is) nelle sue varie declinazioni; si è determinata la riapertura dello storico conflitto tra sunniti e sciiti nell’area che congiunge l’Iran al versante orientale della Siria, che aveva visto l’Irak di Saddam Hussein contrapporsi per anni alla deriva fondamentalista dell’Iran di Khomeini; è emerso un inusitato attivismo politico e militare in tutta l’area da parte di Turchia ed Arabia saudita, in precedenza oscurate dal ruolo preponderante dell’Egitto; infine, c’è stato un intervento militare diretto della Russia a favore di Assad, al fine di non farsi completamente marginalizzare come potenza regionale, dopo lo scacco subito in Ucraina da parte delle forze filo occidentali, la secessione della Crimea e le conseguenti sanzioni economiche e politiche.

La vicenda siriana rappresenta probabilmente la pietra di inciampo della strategia obamiana del “nuovo inizio”, volta a fare cadere tutti i regimi illiberali del Medio Oriente e dell’Africa che si bagna nel Mediterraneo. Secondo questa impostazione, la repressione del dissenso politico e la mancanza di vera democrazia creano le condizioni ideali per la nascita di movimenti terrostistici che utilizzano l’Islam ed i suoi valori in modo strumentale, scagliandosi contro l’Occidente che la fa sempre da padrone nell’area, comprando petrolio e vendendo armi a regimi-fantoccio. Per solidarietà, molti giovani musulmani che vivono in Occidente si mobilitano, recandosi come foreign fighter nelle aree mediorientali dove i fautori dell’Isalm radicale tentano la presa del potere, ovvero creando un fronte interno che si rende responsabile di continui attentati. È un fenomeno cui abbiamo assistito per anni, quando era in discussione la causa palestinese nei confronti di Israele. Mentre la solidarietà araba verso i palestinesi era spesso forzata, i conflitti che interessano praticamente tutte le popolazioni mediorientali determinano forme di partecipazione e di risonanza ampie e profonde un po’ dappertutto.

In Siria, si è bloccato un processo che nel corso del 2011 aveva portato alla rapida caduta di un regime dietro l’altro: da quello di Ben Alì in Tunisia a quello di Hosni Mubarak in Egitto, per arrivare a Muhammar Gheddafi in Libia. Anche Bashar al-Assad era stato bruscamente invitato dagli Usa a farsi da parte, nell’estate del 2011, minacciandolo di cacciarlo a forza se avesse usato le armi chimiche per reprimere le proteste popolari. Assad resistette, per anni. Toccò a John Kerry, il successore di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, comunicare il 31 agosto del 2013 lo stop alle operazioni militari che erano già state avviate dopo che lo stesso Presidente Obama aveva dichiarato che il regime di Assad aveva superato la linea rossa: oltre 1400 protestanti erano stati uccisi usando gas venefici. Ben altra determinazione aveva dimostrato Hillary Clinton, quando si era trattato di defenestrare Mubarak e di atterrare Gheddafi: Obama fermò tutto perché non “cercava un nuovo drago da uccidere”: rischiava di dar corso ad un altro conflitto rovinoso, come quelli in Afganistan ed Iraq voluti da George W. Bush, e da cui con grandi sacrifici stava riuscendo a tirarsi fuori.

La crisi siriana è quindi cruciale per più ragioni. Questo conflitto non ha determinato solo la fuga di milioni di profughi che destabilizza l’intera Unione europea, ma una rilettura della storica “responsabilità di proteggere” i civili, vittime di massacri, che ha giustificato l’intervento militare unilaterale americano. L’azione in Bosnia, per mettere fine al massacro dei musulmani, rimane il precedente fondamentale. L’esercito americano, secondo questa rilettura, non andrebbe impiegato incondizionatamente, ma solo quando questi disastri umanitari minaccino direttamente la sicurezza degli Usa. I passi indietro sono stati ben tre: il primo si pone sul piano teorico, circoscrivendo assai la “responsabilità di proteggere” da parte degli USA. Il secondo deriva dal prevalere del realismo politico: la marcia indietro in Siria è stata determinata dal sostegno militare offerto da Russia ed Iran al regime di Assad. In politica estera, secondo Obama, occorre innanzitutto “non fare sciocchezze”. Al contrario, secondo la Clinton, in politica estera bisogna avere una strategia e degli obiettivi, non limitarsi a “non fare sciocchezze”, servono criteri organizzatori delle relazioni internazionali, e quest’ultimo non lo è.

Dal cambiamento di passo tra il primo ed il secondo mandato di Obama emergono in modo ancor più chiaro sia le conseguenze della recente incertezza strategica americana sia quelle dovute al ribaltamento della impostazione di George W. Bush. Con l’intervento in Afganistan, volto a colpire i santuari dei talebani, l’Amministrazione Bush si era portata immediatamente a ridosso di Cina e Russia, spostando così di migliaia di chilometri ad est la frontiera dell’Occidente. L’intervento in Iraq, a sua volta, era servito a sbarazzarsi di un pericoloso nemico di Israele. Nel frattempo, lo sdoganamento del regime di Gheddafi allentava una mai sopita tensione nel Mediterraneo: l’Italia, con il Trattato di particolare amicizia firmato a Bengasi, faceva da garante. Tutto si teneva, anche se a fronte di un carissimo prezzo da pagare, mantenere una consistente presenza militare americana all’estero. Il ritiro dall’heartland asiatico ha imposto una strategia di contenimento della Russia molto più a ridosso dell’Europa, intervenendo in Ucraina e cercando di saldare l’asse sunnita nell’area orientale della Siria e nell’Irak per poter isolare l’Iran e per ridurre la presenza militare della Russia sulla costa della Siria ad un sorta di enclave crimeana.

Le vicende dell’intera area mediorientale e dell’Africa settentrionale ed il nodo della Siria ripropongono all’America uno scenario simile a quello del conflitto in Vietnam e del pericolo che, come il domino, la sconfitta in quel Paese inducesse la perdita di influenza nell’intero sud-est asiatico. Anche allora, il Vietnam del Nord non resisteva in virtù delle sue sole forze, isolato.

Il potere unipolare degli Usa sembra cedere verso un equilibrio multipolare, tutto ancora da costruire: nel frattempo, c’è il caos. È questa, forse, la “awful legacy” cui si riferiva Bill Clinton. Torna alla mente, però, anche quella che Barack Obama ricevette da George W. Bush, nel 2008: la più grave crisi finanziaria globale da un secolo. Gli Usa passano da una crisi all’altra e da una guerra all’altra: questo è il peso di una eredità condivisa, cui molti americani vorrebbero poter rinunciare.

Tutte le recenti punzecchiature fra Barack Obama e i Clinton

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