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E’ difficile trovare un precedente analogo, per anomalia, al bilancio della campagna elettorale per questo turno amministrativo riguardante più di 1300 Comuni, fra i quali Torino, Milano, Trieste, Bologna, Grosseto, Roma, Napoli, Cosenza e Cagliari. Un bilancio proiettato, come vedremo, più sulla politica nazionale che su quella locale, troppo frammentata.

Qualcosa forse di simile accadde solo con le elezioni amministrative autunnali del 1993, fra i marosi di Tangentopoli e alla vigilia delle prime elezioni politiche destinate a svolgersi dopo qualche mese, nel 1994, con un sistema non più proporzionale ma misto: per due terzi maggioritario e per un terzo ancora proporzionale.

Quella campagna elettorale amministrativa servì a misurare la crisi di quello che era stato per più di 45 anni il maggiore partito italiano, la Dc, e dei suoi alleati tradizionali. Anche allora si votò, fra l’altro, per il rinnovo dell’amministrazione capitolina. E il candidato democristiano non arrivò neppure al ballottaggio. Vi giunsero invece Francesco Rutelli, sostenuto da uno schieramento di sinistra, e Gianfranco Fini, segretario ancora del Movimento Sociale, anche se già incamminato sulla strada dell’Alleanza Nazionale.

L’effetto di quel primo turno elettorale fu traumatico per la Dc guidata da Mino Martinazzoli, e in via di cambiamento di nome, per tornare a quello sturziano di Partito Popolare, anche se i democristiani, diversamente dai comunisti, già passati dal Pci al Pds e dalla falce e martello alla quercia, non avevano alcuna sconfitta storica da nascondere. Il muro di Berlino era caduto nel 1989 sulle spalle degli avversari, non certo su quelle dei democristiani.

Erano altre le macerie cadute sullo scudo crociato e sugli altri tradizionali partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica: quelle mediatiche e giudiziarie prodotte dalle inchieste sul finanziamento illegale della politica e sui reati ad esso connessi, a torto o a ragione: concussione, corruzione e quant’altro.

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Già tramortita dal mancato superamento del primo turno elettorale in una città emblematica come Roma, la Dc ebbe il colpo di grazia con la decisione di Silvio Berlusconi di anticipare quello che preparava da tempo, in vista delle elezioni politiche del 1994, sdoganando la destra missina. Tale fu il senso del suo annuncio che avrebbe votato Fini piuttosto che Rutelli se fosse stato già allora un elettore romano, com’è diventato solo di recente.

Fini perse ugualmente il ballottaggio capitolino ma si conquistò, con quella fiducia datagli da Berlusconi, la partecipazione al cartello di centrodestra che dopo qualche mese avrebbe vinto le elezioni politiche anticipate. Fu sbaragliata la “gioiosa macchina da guerra” allestita a sinistra da Achille Occhetto, e polverizzato il tentativo di quel che restava della Dc di sottrarsi al bipolarismo, anche a costo di candidare a Palazzo Chigi Mario Segni.

Protagonista della stagione referendaria contro le preferenze e il sistema elettorale proporzionale, il figlio del primo presidente sardo della Repubblica era uscito dal partito scudocrociato l’anno prima sbattendo praticamente la porta, con motivazioni morali aggravate dalla coincidenza con il coinvolgimento di Giulio Andreotti, a Palermo, nelle indagini per mafia, con tutto ciò che ne sarebbe poi seguito. Roba che nessun segretario della Dc, o di sigle successive, avrebbe mai potuto perdonare a Mario Segni, se Martinazzoli non si fosse trovato davvero nell’angolo, dove era stato cacciato da Berlusconi con la decisione di organizzare una sua coalizione di governo, irrompendo come una lepre nell’elettorato di quelli che erano stati il centrismo, il centrosinistra e il pentapartito.

A pensarci, dopo soli 22 anni, e vedendo com’è nel frattempo cambiato il panorama politico italiano, con i post-comunisti fagocitati dai modesti resti della sinistra democristiana sfuggiti alla lepre di Arcore, il passaggio dal bipolarismo al tripolarismo grazie all’irruzione di un comico e il centrodestra che più spappolato di così –Milano a parte – non poteva arrivare al primo turno delle elezioni capitoline di questo 2016, si stenta a credere che davvero nel 1994 accadde quel che accadde. Eppure accadde. E Berlusconi, irriducibile nel suo ottimismo, almeno quello ostentato, pensa ancora di poter fare risorgere il centrodestra come Lazzaro, strappandolo alle bende lepeniste in cui cerca di avvolgerlo il segretario leghista Matteo Salvini.

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In attesa comunque dei risultati del primo turno e di conoscere i protagonisti dei ballottaggi del 19 giugno, l’unica certezza offerta dalle ultime battute della campagna elettorale non riguarda nessuno dei Comuni in cui si vota, piccoli o grandi, anzi grandissimi, che siano. E’ la conferma che il presidente del Consiglio, profittando del soccorso che ha cercato di dare ugualmente ai candidati del suo partito in corsa per le torri municipali e confermando al tempo stesso il suo sostanziale disinteresse per le loro sorti, ha voluto dare: a lui preme soprattutto il referendum di ottobre sulla sua riforma costituzionale. Sarà in gioco allora la sua stessa sopravvivenza politica, essendo deciso – ha detto – “o a cambiare l’Italia”, come pensa che possa fare vincendo appunto il referendum, “o a cambiare mestiere”. Qualcuno dei suoi avversari ora sarà tentato di rappresentarlo nella campagna referendaria col pugno stretto del pugile: come quello di Muhammad Ali – ex Cassius Clay pubblicato sulle prime pagine dei giornali ricordando il campione appena scomparso.

Tutto questo, ripeto, con le elezioni amministrative non c’entra niente. Ma è l’unico effetto della campagna elettorale terminata venerdì sera. E lo sarà probabilmente anche di quella che riprenderà per i ballottaggi del 19 giugno.

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