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Il 18 maggio, la Commissione Europea darà “la pagella” al DEF (Documento di Economia e Finanza) e all’allegato PNR (Programma Nazionale di Riforma), ossia ai documenti che tracciano la politica economica dell’Italia nell’anno in corso e la proiettano nei due successivi. Ci sono stati giorni di timori e tremori.

Prima del fine settimana, l’Istat ha certificato che nel primo trimestre il Pil è cresciuto dello 0,3% e la deflazione è a quota -5%. La media UE per la crescita nel periodo è lo 0,5% trainata dalla Germania che supera le attese (+0,7%) grazie all’aumento dei consumi interni. Restiamo, dopo la Grecia, il fanalino di coda dell’UE.

Lo conferma l’ultima tornata delle stime del “gruppo del consenso” (le stime biennali pubblicate ogni mese da 20 istituti econometrici di analisi previsionale, tutti privati nessuno italiano): per l’anno in corso mentre la crescita media dell’UE sarà, all’ultima conta, dell’1,5%, quella dell’Italia farà fatica ad arrivare all’1%, principalmente a causa della deflazione strisciante e della conseguente sfiducia nel ceto dirigente.

Triste il quadro occupazionale; rispetto ad una media UE di un tasso di disoccupazione pari al 10% della forza di lavoro, per l’anno nella sua interezza, quello dell’Italia resterebbe ancorato all’11,4%, nonostante il Jobs Act, gli incentivi alle assunzioni e la riduzione delle stesse forze di lavoro a ragione dell’aumento dei “delusi”che hanno cessato di cercare un impiego.

Se dall’economia reale si passa alla finanza il quadro non migliora. Il debito pubblico, che dal 2010 avrebbe dovuto iniziare una graduale ma progressiva discesa verso il 60% del Pil, resta ancorato al 133% del prodotto nazionale e le banche sono oberate da crediti inesigibili, indicazione che ci vorrà tempo (e non solo) prima che gli istituti saranno in grado di finanziarie la crescita.

In tempi normali, ed in una scuola normale, ce ne sarebbe abbastanza per essere “rimandati” ai settembrini “esami di riparazione” tramite una “procedura d’infrazione” che ci costringerebbe a restare a casa a studiare mentre i compagni vanno in vacanza.

Ma, per nostra fortuna, l’UE è un po’ come una maestrina dalla penna rossa quale quella del libro “Cuore” di De Amicis, non solo misericordiosa ma anche timorosa che se un allievo si prende la varicella finisce con il contagiare gli altri. E’ anche un po’ come quelle università americane, che seguendo i precetti del Barone von Humboldt, e voltando le spalle alla tradizione francese ed italiana di grandi auditori, ha optato per classi piccole, con contatti molto stretti tra studenti e professori, anche fuori dall’aula. In tali università, non ci sono pagelle ma voti finali basati su attività in classe (e fuori aula), tesine e test alla fine del corso. Spesso il voto finale risulta da interazione e negoziazione più che dalla singole prove.

Il 18 maggio l’Italia sarà promossa, anche se per il rotto della cuffia e la media del 6 sarà accompagnata da rimbrotti sull’alto livello del debito e del fardello che esso pone per la crescita del Paese e la stabilità finanziaria dell’intera Unione.

Non è solamente il Giubileo della Misericordia che induce ad essere particolarmente “di manica larga” (come si diceva quando io andavo a scuola). Ne usciremo promossi per due ragioni. Una puramente politica ed una tecnica.

La prima è ben interpretata dall’editoriale di The Economist del 14 maggio. Il presidente del Consiglio è stato molto abile nel fare intendere che non ci sono alternative credibili alla sua leadership: tra una minoranza PD che starnazza invece di fare politica, un centrodestra frammentato in cui ci si scanna vicenda, ed un M5S anch’esso travolto da liti intestine, Matteo Renzi ha convinto l’UE che è il solo interlocutore possibile: Après moi, le déluge!

La seconda riguarda il debito. La UE si è scottata le dita con la Grecia ed il 24 maggio dovrà ricorrere ad un nuovo salvataggio. E’ terrorizzata dalla “teoria del domino”: se al “caso Grecia”, si aggiunge “il caso Italia”, l’intera costruzione potrebbe andare a ramengo.

Quindi, aspettiamoci il “minimo sindacale” ed uno scappellotto.

Matteo Renzi

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