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Donald Trump si è conquistato, a Cleveland, la nomination repubblicana per la corsa alla Casa Bianca: la sua ambizione è di rappresentare la middle class, senza distinzioni di razza, rivendicare le libertà economiche tradizionali contro l’establishment, ormai perfettamente bipartisan, ribaltare la gran parte delle decisioni politiche dei suoi predecessori democratici, iniziando dall’Obamacare e dalle relazioni commerciali con Messico e Cina. Obiettivi, questi ultimi, quasi rivoluzionari: non serve a nulla, secondo Trump, essere il gendarme del mondo se poi c’è bisogno dei capitali stranieri per finanziare il debito federale ed il disavanzo della bilancia dei pagamenti americana. L’ombrello politico e militare serve alle multinazionali che lavorano all’estero per macinare utili, ma molto meno ai cittadini americani.

FRA TEA PARTY E BUSH

Donald Trump è riuscito nell’impresa cui si erano accinti per anni i sostenitori del Tea Party, che hanno cercato invano di ribaltare gli equilibri del GOP, e di svellere posizioni di potere sedimentate da decenni. Il ritiro di Jebb Bush, cui Trump non ha neppure reso l’onore delle armi, ha segnato la fine delle dinastie in campo repubblicano, mentre resistono, con Hillary Clinton, tra i democratici: questo sarà il primo discrimine nelle presidenziali di ottobre.

CAMPAGNA ALL’ATTACCO

Per il candidato repubblicano è stata una campagna giocata tutta all’attacco: contro il suo stesso partito, contro la Clinton, e contro i media che hanno virato un po’ troppo spesso sul macchiettistico per sminuirlo. Schierandosi così smaccatamente e pregiudizialmente contro, hanno fatto il gioco di Trump, che parla direttamente alla pancia degli americani, perdendo di credibilità: hanno dimostrato di rappresentare una tessera del sistema di potere che adultera il gioco democratico. Neppure il Presidente Barack Obama si è sottratto alla tentazione della battuta irridente, quando, riferendosi alla ormai famosissima capigliatura del candidato repubblicano, ha affermato che “Orange is not the new black”. Hillary Clinton non è riuscita a disinnescare Trump: essendo troppo impegnata a prevalere su Sanders, ha finito per subire gli attacchi di entrambi.

L’IMPRONTA REAGANIANA

C’è molto nella campagna elettorale di Trump che ricorda quella di Reagan: anche lui era snobbato dai media, che ricordavano il suo passato di attore di terz’ordine ad Hollywood, piuttosto che l’incarico di Governatore della California. Anche Reagan proponeva un cambio di paradigma: spezzare il monopolio politico e culturale del New England; abbandonare definitivamente il keynesismo a favore della teoria dell’offerta; guardare al futuro della new economy di cui gli Usa sarebbero stati leader indiscussi.

 

LA FRUSTAZIONE E I NUMERI

Lo scenario internazionale di allora era tutto centrato sulla sconfitta del comunismo e dell’URSS: gli Usa dovevano dimenticare le umiliazioni politiche, militari e diplomatiche subite durante la Presidenza Carter. Dal fallimento delle trattative tra Israele e palestinesi, fino all’assedio della ambasciata americana a Teheran, c’era fin troppo da recuperare. Trump fronteggia un analogo senso di insoddisfazione se non di frustrazione, tutto legato stavolta alla situazione economica e sociale interna. Il deficit federale è vicino alla soglia del 100% del pil, la bilancia dei pagamenti correnti ha ripreso a peggiorare, mentre la posizione finanziaria netta è negativa per oltre il 41% del pil: gli Usa, a fine 2015, erano debitori netti per 7.356 miliardi di dollari verso il resto del mondo.

GLI ATTACCHI A CLINTON E OBAMA

C’è molto da disfare, secondo Trump, per fare l’America grande ancora, come recita il suo slogan elettorale. L’attacco portato alle decisioni dei suoi predecessori democratici, Bill Clinton e Barak Obama, non salva praticamente nulla: dalla apertura commerciale squilibrata in favore di Cina e Messico, alla politica dell’immigrazione incontrollata, dall’Obamacare tanto sostenuto da Hillary Clinton alla tassazione che stritola il ceto medio.

IL LIBERISMO SECONDO TRUMP

Ciò che colpisce nelle proposte di Trump non è l’impostazione decisamente liberista, del tutto scontata, quanto la affermazione secondo cui il liberismo non può essere a senso unico: non può essere limitato alla concorrenza internazionale sui livelli salariali, trascurando i diritti dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e le aspettative dei cittadini americani, rivolgendosi a vantaggio di chi negli Usa fa business con le delocalizzazioni o con l’immigrazione clandestina, ovvero all’estero manipola le valute o impedisce l’accesso sul mercato alle imprese americane. Sono in tanti, in questi anni, ad aver lucrato da questo stato di cose: è contro questo assetto di relazioni politiche, economiche e finanziarie, interne ed internazionali, che Trump si scaglia.

IL DOSSIER OBAMACARE

L’abrogazione dell’Obamacare è in cima ai propositi. Il risultato della riforma, ad avviso del candidato repubblicano, è nettamente negativo: le spese pubbliche sono aumentate, i premi assicurativi pure, mentre è diminuita la competizione e la possibilità di scelta. Al fine di ampliare le cure sanitarie, rendendole più accessibili, e di migliorare la qualità della assistenza disponibile per tutti gli americani, si propone di abrogare la riforma stabilendo il principio che nessuno può essere obbligato per legge a sottoscrivere una assicurazione sanitaria. In secondo luogo, occorre aumentare la concorrenza tra le assicurazioni, eliminando le barriere statali: una volta ottenuta la abilitazione a vendere le polizze in un qualsiasi Stato, si possono venderle automaticamente anche in tutti gli altri. Va prevista la completa deducibilità dall’imponibile dei premi e consentire la creazione di Conti di Risparmio Sanitario ad accumulazione, esentasse, sulla falsariga dei piani previdenziali. Serve maggiore trasparenza nei prezzi da parte di tutti coloro che offrono servizi sanitari ed occorre abbattere le barriere all’ingresso nel settore farmaceutico: se è di certo una industria privata, fornisce un servizio pubblico. Anche l’importazione di medicinali sicuri deve essere ammessa. Queste sono le sacche di rendite che vanno colpite, in quanto rendono esageratamente cara la sanità americana.

LA GUERRA ALLA CINA

Occorre poi rivedere le relazioni commerciali con la Cina. Mai, afferma Trump, previsione fu più sballata di quella fatta da Bill Clinton nel 2000, all’atto di annunciare l’ingresso della Cina nel Wto. Anziché aprire all’America il mercato cinese, come era stato promesso, decine di migliaia le imprese statunitensi hanno chiuso i battenti ed una decina di milioni almeno i posti di lavoro sono stati persi. Non esiste “free trade” se non c’è “fair trade”: ci vuole reciprocità da parte della Cina nell’aprire il suo mercato; sono inaccettabili le condizioni di condividere le conoscenze tecnologiche americane per poter produrre in Cina; bisogna eliminate tutti gli aiuti statali diretti ed indiretti che falsano la concorrenza; e soprattutto mettere fine al dumping sociale ed ambientale derivante dalla adozione di standard meno cogenti. Ci sono dei veri e propri “paradisi dell’inquinamento” che vanno banditi. Nel giorno stesso del suo insediamento come Presidente, Trump promette che il Dipartimento del tesoro designerà la Cina come soggetto manipolatore delle valute: se non è guerra aperta, poco ci manca. Ridurre il deficit estero ed il debito pubblico sono quindi obiettivi altamente strategici, perché servono ad eliminare una elevata vulnerabilità americana.

IL CAPITOLO IMMIGRAZIONE

La riforma dell’immigrazione è un altro capitolo fondamentale: l’attacco è portato alle lobby padronali che manovrano all’interno di entrambi i Partiti del Congresso. E’ ben noto che la manodopera illegale costa meno, ha meno diritti, e rappresenta un fattore di arricchimento usato senza scrupoli. La criminalità organizzata prolifera e si arricchisce: per questo vanno controllate le frontiere con il Messico e va data la preferenza assoluta alla manodopera americana rispetto agli immigrati.

LE PROPOSTE FISCALI

C’è infine la riforma fiscale, che dovrebbe essere neutrale dal punto di vista del gettito: prevede tre sole aliquote per i redditi da lavoro, oltre ad una no tax area che copre i single fino a 25 mila dollari e fino a 50 mila dollari le coppie sposate. La prima aliquota del 10%,  rispettivamente, fino a 50 mila e 100 mila dollari; la seconda del 20%, fino a 150 mila e 300 mila; la terza del 25% sui redditi ulteriori. Per i redditi da capitale (Long Term Capital Gain e Dividend Rate) sono previste due aliquote, del 15% e del 20%, che si applicano sugli scaglioni della seconda e terza aliquota di imposta sui redditi da lavoro. Ci sono misure fiscali una tantum, con uno scudo al 10% sul  rimpatrio dei capitali detenuti all’estero, la eliminazione della esenzione d’imposta per i guadagni effettuati all’estero fino al rimpatrio, la riduzione della Corporate tax al 15% al fine di rendere competitiva la fiscalità americana.

Se non si promettono tagli alle tasse, non è una campagna elettorale come si deve. Quella di Trump rispetta le regole, e comincia con i fuochi d’artificio: ce n’è per tutti. Ci saranno guerre economiche.

Se la globalizzazione finanziaria è già un ricordo, anche l’unipolarismo politico e militare americano finanziato a debito non regge. La terra non è più piatta, ma rotonda. Alla ricerca di nuovi equilibri, più che girare, ruzzola.

Vi spiego il liberismo alla Donald Trump

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