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Oggi il governo esulta. Non c’è che dire: una delle battaglie di fondo deliberate dall’esecutivo è stata vinta. Grazie alla diplomazia internazionale condotta dal ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, e negli ultimi due mesi dal rappresentante permanente presso le istituzioni europee, Carlo Calenda, l’Italia porta a casa sulla manovra di politica economica 14 miliardi di flessibilità. Non è la fine del Fiscal Compact, come qualcuno si affretta a scrivere questa mattina. Non solo l’accordo prevede “circostanze eccezionali” per deroghe alle sue prescrizioni (e con il Mediterraneo ed il Medio Oriente in guerra e flussi di migranti verso le coste italiane) perché siamo in un contesto straordinario. Ma anche ove non ci fosse il Fiscal Compact, come ha detto sin dagli Ottanta il sindacalista francese Marc Blondel, a lungo leader di Force Ouvrière, nell’età della globalizzazione i governi sono diventati subappaltanti dei mercati. L’Italia – ammettiamolo – non è tra i maggiori subappaltanti (nell’ambito dei Paesi industriali ad economia di mercato). Quindi, la disciplina della finanza pubblica verrebbe imposta dai mercati, anche brutalmente come nell’estate 1992. Inoltre, non è una flessibilità senza condizioni: contiene l’obbligo di un rientro più forte (le stime oscillano tra i 10 ed i 16 miliardi) dall’indebitamento delle pubbliche amministrazioni l’anno prossimo e un’azione decisa per ridurre il rapporto debito/Pil. Quindi siamo nella situazione della “sufficienza” con l’impegno, però, a studiare durante l’estate, anche se non si è formalmente rimandati agli esami di riparazione (come anticipato su Formiche.net del 16 maggio)

 

Abbiamo trattato più volte dei modi per ridurre il rapporto debito/Pil. Le ricette non mancano: basta scegliere il mix ed applicarlo con tenacia. Oggi, mentre a Palazzo Chigi, alla Farnesina, a Via Venti Settembre e alla Rappresentanza italiana a Bruxelles tutti sturano bottiglie di champagne è utile ricordare che esistono due famiglie di flessibilità: una difensiva e una offensiva. La prima tende ad utilizzare le risorse ottenute per difendere l’esistente e, dato che siamo alla vigilia di elezioni e di un referendum, di dare “contentini” grandi e piccoli a fasce di elettori per ottenerne nel breve periodo il consenso. La seconda è offensiva perché ha l’obiettivo di modificare radicalmente lo status quo e ad impiegare le risorse per riforme strutturali economiche (non istituzionali): le riforme costano per attutire il colpo sui gruppi sino ad ora avvantaggiati dallo status quo, per graduarne il passo e via discorrendo. Riguardano la concorrenza, l’innovazione tecnologica, la dimensione di imprese, le privatizzazioni (specialmente nel “capitalismo regionale e municipale”) la riduzione del carico e della oppressione fiscale. E via discorrendo. I beneficiari non votano: sono i nostri figli piccoli e i nostri nipoti.

La via delle riforme ha in Italia una stella polare: ridurre la spesa pubblica (che intermedia oltre il 50% del Pil) e, nei limiti del possibile, dare fiato agli investimenti a lungo termine che guardino al futuro delle nuove generazioni. I tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni. Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli esiti – quelli visibili, almeno – non sono stati migliori.

È solo colpa dei politici? Un libro promosso dal Centro Studi Impresa Lavoro, una Guida Operativa che verrà presentata il 26 maggio alla Fondazione Ugo La Malfa, prova a suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la revisione non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello Stato incaricato delle formazione, della valutazione e del monitoraggio del bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona, la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro facilmente comprensibili non solo ai tecnici, ma anche all’uomo della strada. In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica. Ma una Guida è unicamente un tracciato.

Ciò che si vuole è una scelta politica forte e chiara tra quale flessibilità adottare: se difensiva od offensiva.

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