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Ampliando lo sguardo, emerge il problema del ruolo degli atenei nel XXI secolo, in particolare nel nostro Paese. Juan Carlos de Martin sostiene che le università del futuro debbano formare cittadini e non solo lavoratori. Pur nella ovvia condivisione teorica, mi sembra opportuno evidenziare almeno tre considerazioni.

In primo luogo, con l’uso dell’intelligenza artificiale i lavoratori saranno sempre di meno, per cui scuole e università dovranno educare i cittadini più che al lavoro a un uso produttivo e vantaggioso del tempo libero, per sé stessi e la società, insegnando non tanto come si lavora ma come si vive. E questo richiederebbe una sfida educativa ancora più alta richiamando la necessità di educare i cittadini anche a gestire i sistemi di intelligenza artificiale sia nel lavoro sia nell’agire quotidiano.

In secondo luogo, l’attuale sistema non forma pienamente neanche i lavoratori: magari lo facesse. Non solo in Italia è sperimentato da decenni lo scollamento tra istruzione e occupazione, ma gli scenari dell’immediato futuro richiedono competenze che gli attuali sistemi educativi in gran parte non assicurano e di cui non si ha alcuna consapevolezza. Sostiene infatti Yuval Noah Harari: Poiché non sappiamo quale assetto avrà il mercato del lavoro nel 2030 o nel 2040, già oggi non abbiamo la più pallida idea di cosa insegnare ai nostri figli. La maggior parte di ciò che essi imparano oggi a scuola sarà con ogni probabilità irrilevante per quando avranno quarant’anni […] l’unico modo per gli uomini di rimanere in gioco sarà continuare ad apprendere nel corso delle loro vite, e reinventarsi costantemente. Molti, se non addirittura la maggioranza, non saranno capaci di stare al passo.

In terzo luogo, com’è possibile formare i cittadini nelle università se siamo sommersi dalla disinformazione e il sistema dell’istruzione non fornisce le competenze di base per sviluppare il pensiero critico? L’università può offrire titoli qualificati se il percorso scolastico ha deficienze precedenti così vistose? In Italia, secondo me, il dibattito è stato deformato da alcune visioni ideologiche e da un dibattito concentrato quasi esclusivamente sulle risorse economiche, che, pur rappresentando un aspetto fondamentale, non sono l’unico elemento da considerare. E questo soprattutto quando i fondi si spendono male, ampliando il numero dei corsi di laurea, arroccandosi sulle rendite di posizione, reclutando personale a volte inadeguato.

Infatti, vale certamente per l’università quello che Luigi Monti sostiene per la scuola: Gli strali lagnosi contro le politiche scolastiche di destra e la loro visione burocratica e aziendalistica si possono liquidare facilmente rispedendoli al mittente. Nel vortice scomposto e senza fine dei piccoli aggiustamenti tecnocratici ai fallimenti conclamati della scuola è evidente ormai che destra e sinistra non c’entrano nulla […]: la continuità pedagogica di fondo fra i ministeri che si sono susseguiti negli ultimi lustri […] è disarmante. Anche agli atenei italiani in gran parte sfugge il cambio di passo epocale richiesto dall’avvento dell’infosfera. Mark Taylor già nel 2009 evidenziava: La maggioranza dei corsi di laurea offerti dalle università statunitensi sforna un prodotto per cui non c’è alcun mercato (candidati per cattedre di docenza che non esistono) e sviluppa competenze che sono oggetto di una domanda in continuo calo (i risultati delle ricerche vengono pubblicati in riviste accademiche che non legge nessuno, tranne una manciata di colleghi che hanno analoghi interessi).

Tanto è vero che c’è chi prevede che gli atenei tradizionali entro il 2030 potranno subire pesanti ridimensionamenti, con il licenziamento del personale a seguito dell’ampliamento dell’offerta accademica telematica, tra cui emergono, pur con contraddizioni, i Massive Open Online Course (MOOC), erogati gratuitamente dai più importanti atenei del mondo. Ma sugli atenei telematici, per come si sono sviluppati in Italia, occorrerebbero urgenti interventi, in funzione del ruolo sempre più rilevante che assumeranno nell’immediato futuro. Inoltre, a livello nazionale l’emigrazione studentesca dal Sud al Nord ha impatti rilevanti sull’economia delle regioni, come dimostrano gli studi di Gianfranco Viesti e Gaetano Vecchione

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