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Qualche tempo dopo la caduta del muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre del 1989, il grande storico francese, François Furet, pubblicò un libro intitolato Le passé d’une illusion, dedicato alla storia e alla fine dell’utopia del comunismo. Davanti al moltiplicarsi dei segni di crisi del processo di integrazione europea, c’è da chiedersi, molto seriamente, se il titolo di Furet non si applichi altrettanto bene alle vicende contemporanee dell’Europa.

Non si tratta solo dell’esito del referendum inglese: in fondo si era sempre saputo che la Gran Bretagna non condivideva l’entusiasmo di altri paesi del continente per l‘idea degli Stati Uniti d’Europa ed era restata estranea ad alcune delle iniziative più significative prese in Europa negli ultimi venticinque anni, dalla moneta unica alla libera circolazione delle persone. Né sorprende l’atteggiamento di alcuni dei Paesi di più recente adesione, come l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia o i Paesi baltici, che non hanno mai nascosto di non condividere il fine ultimo della creazione di un vero e proprio stato sovranazionale europeo.

Il problema è costituito dalla mutata situazione politica nei paesi che costituiscono il nucleo originario dell’Unione Europea: il prevalere di orientamenti antieuropei in Olanda; il successo elettorale di movimenti come quello della signora Le Pen in Francia, l’evidente raffreddamento nell’opinione pubblica dell’europeismo in Italia. In Germania, sia la Cancelliera Merkel che il ministro delle Finanze Schauble hanno fatto presente, di fronte alle sollecitazioni congiunte di Hollande e di Renzi, che non è il momento per proporre improbabili scenari di intensificazione del processo di integrazione europea.

Va detto con chiarezza: il momento magico dell’Europa, quando i governi collaboravano nell’immaginare nuove ardite architetture europee, è passato. Erano quelli i primi anni del secondo dopoguerra, quando la minaccia esterna costituita dall’Unione Sovietica spingeva l’Europa Occidentale a unirsi, quando gli Stati Uniti incoraggiavano con tutto il loro peso questo processo per costituire un contrappeso all’espansionismo dell’Urss e gli stati nazionali, soprattutto la Germania e l’Italia, sentivano l’onta delle conseguenze tragiche del proprio nazionalismo e volevano cancellare quell’eredità.

I primi passi dell’integrazione ebbero conseguenze economiche molto favorevoli e questo aiutò il processo a consolidarsi. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e il Mercato comune contribuirono alla ricostruzione e poi al boom economico dell’Europa. La stessa politica agricola comune, pur se costosa, consentì di limitare le conseguenze economiche e sociali della trasformazione del continente.

L’errore, come fu segnalato per tempo, anche se inutilmente, è stata ed è la moneta unica. Il passo presupponeva l’unione politica dell’Europa. E invece la si fece nell’illusione di costringere ad accelerare questo processo. In più, non vi erano idee convergenti sul farla e su come farla. La Germania non intendeva farsi carico delle condizioni di paesi che essa considerava mal gestiti. Ma gli europeisti preferirono accettare le regole restrittive che la Germania aveva preteso, pur di procedere. Così è nata la moneta senza una politica economica comune e senza garanzie che potessero sviluppare, allo stesso modo, le economie dei paesi membri. E quando sono emerse le prime difficoltà, dopo il 2008, invece di fermarsi, si è andati avanti, affiancando alla moneta unica, l’unione bancaria, uniformando parzialmente le regole, ma dimenticando, come ha denunciato ieri il presidente dell’Abi Patuelli, che per fare una buona unione bancaria bisognerebbe unificare anche i codici e le regole del commercio.

Ora è facile dire che l’Europa dovrebbe fare un passo in avanti. Significherebbe aggiungere errore a errore. La saggezza oggi dovrebbe spingere a ridurre le aree di azione comune, restituire il più possibile e il più rapidamente flessibilità e autonomia alle politiche nazionali, smettere di perseguire una impossibile omogeneizzazione di tutti e permettere la coesistenza di politiche diverse.

E’ possibile, purché lo si voglia fare, in molti campi. E’ molto difficile farlo per la moneta unica. Ma questa è la vera questione: non se sia possibile fare un passo in avanti, ma come riorganizzare un’unione meno vincolante per evitare che il passo indietro avvenga a seguito di vicende come il referendum inglese, in modo disordinato e caotico e, quindi, nella maniera peggiore. Serve la saggezza di fermarsi e di riflettere. Prima che sia troppo tardi.

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