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È un’altra battaglia persa quella delle trivelle, nell’avanzata inarrestabile dell’ambientalismo rivoluzionario contro l’industria italiana, che ha facile gioco visto la scarsa resistenza. Indipendentemente da come andrà il referendum del 17 aprile, di nuove esplorazioni, e pertanto di nuove produzioni, non se ne faranno più in Italia, il Paese che per primo ha iniziato lo sfruttamento economico del petrolio nel 1700, come ci ricordano Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedie.

La vicenda è un pasticcio amministrativo fra lo Stato, che deve gestire le politiche energetiche, e le Regioni, a cui in maniera irresponsabile abbiamo dato poteri in materia, e la dice lunga sull’incapacità tutta italiana di fare sistema-Paese.

Nonostante nell’immaginario collettivo riguardi tutte le perforazioni, in realtà lo scontro è confinato solo alle attività dentro le 12 miglia, 22 chilometri dalla costa. In particolare, il referendum richiesto da dieci Regioni il 30 settembre 2015 riguardava per lo più una delle parti più qualificanti, l’articolo 38, dello Sblocca Italia, il decreto legge del settembre 2014 che doveva essere lo strumento principale del governo Renzi per rilanciare l’economia italiana. Il famigerato articolo 38 voleva semplicemente aggiustare alcune anomalie introdotte nel 2010 dal decreto legislativo n. 128, quello che fu approvato dal Parlamento subito dopo l’incidente della Deepwater Horizon del 20 aprile 2010. Il 128 introdusse per la prima volta il divieto delle 12 miglia, ma solo per nuovi progetti, mentre doveva garantire le iniziative in corso.

Tuttavia, le Regioni riuscirono a ottenerne un’estensione anche ai progetti in corso. L’articolo 38 voleva semplicemente ricondurre all’autorità centrale il potere di autorizzazione di questi progetti, togliendolo alle Regioni che, però, forti dei poteri ottenuti nel 2001 con la modifica del titolo quinto della Costituzione, hanno avuto facile gioco a ottenere l’ammissibilità dei referendum in questione. La causa dello scontro risale al 128 del 2010, che ha introdotto divieti che non esistono in nessuna parte del mondo. Il decreto fu portato avanti da alcuni senatori siciliani, soprattutto di destra, con l’allora ministro dell’Ambiente Prestigiacomo, che non consultò né la presidenza del Consiglio (il primo ministro Berlusconi aveva già molti problemi) né il ministro dello Sviluppo economico, competente sulle questioni minerarie, in quanto Scajola si era appena dimesso per lo scandalo dell’appartamento.

Il paradosso è che il governo si è dovuto rimangiare tutto l’articolo 38, con modifiche introdotte a fine 2015 nella legge di stabilità, ma il referendum è rimasto in piedi, anche se solo per un quesito laterale relativo alla durata delle concessioni. Anche se non si raggiungerà il quorum, entro le 12 miglia non si farà più nulla e la gran parte dei progetti che potevano essere avviati, per un ammontare di investimenti di 5 miliardi di euro, sono saltati. Non solo, forti della mobilitazione popolare e mediatica sull’argomento, i movimenti ambientali chiederanno il blocco delle perforazioni oltre le 12 miglia e anche a terra in quanto, coerentemente, se sono rischiose entro le 12 miglia, lo sono ancora di più al largo, e quindi lo sono anche a terra.

Nel 2014, per la prima volta negli ultimi 70 anni, le perforazioni per i nuovi pozzi sono state pari a zero, contro picchi di 50 nei primi anni 90. Nel mondo sono oltre 2mila gli impianti che ogni giorno ne scavano di nuovi. Nel mondo esistono circa 2mila piattaforme che tutti i giorni producono milioni di barili di greggio e miliardi di metri cubi di gas. In Italia, di fronte alle nostre coste, soprattutto nell’Adriatico, ci sono circa un centinaio di piattaforme, molte produttive da trent’anni. Nel Mare del Nord sono 300 ed estraggono gas e petrolio per volumi oltre 50 volte superiori a quelli dell’Italia. Il nostro Paese, fra quelli industrializzati, è quello che più dipende da consumi di petrolio e gas nel suo bilancio energetico, circa il 60%, e per il 90% questi volumi li importa dall’estero.

La nostra Strategia energetica nazionale, del marzo 2013, indicava un raddoppio della produzione di petrolio, dagli allora 10 milioni di tonnellate equivalenti a oltre 20. Dopo le ultime vicende, e indipendentemente dall’esito del referendum, la produzione è destinata, nel migliore dei casi, a stabilizzarsi, e così i circa 20 miliardi di lire che gli italiani spendono, a prezzi 2016, per la materia prima gas e petrolio, continueranno ad andare in gran parte all’estero senza lasciare alcun beneficio in Italia. Una vittoria gravosa, come al solito, per le battaglie ambientaliste.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche

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