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La resa dei conti nella Direzione non c’è stata perché non poteva esserci. Nonostante il deludente risultato elettorale, Matteo Renzi resta il dominus del Pd. La sua leadership potrebbe essere scardinata soltanto da una sconfitta al referendum costituzionale. In quel caso, però, assisteremmo all’implosione del Pd, seguita da una scissione e -ipotesi non peregrina- dalla nascita dalle sue ceneri di nuovi soggetti politici nel campo della sinistra italiana. Per ora il confronto interno resta assai duro, è vero, ma pur sempre all’insegna di quella guerra di logoramento che prepara la battaglia finale del prossimo autunno. Renzi ha ribadito con puntiglio la bontà delle scelte del governo, la minoranza ha ribadito con energia la necessità di una svolta nella guida del partito. Gianni Cuperlo e Roberto Speranza, però, alla fine si sono limitati a proporre un singolare documento, che chiedeva di legittimare la creazione di comitati piddini per il No. Più che il topolino, la montagna ha partorito un batterio di dimensioni microscopiche.

Diceva Ennio Flaiano che in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. È stato così anche per la linea che unisce il punto della riorganizzazione del partito a quello di un suo rapporto nuovo e più saldo con la società civile. Osservazioni critiche interessanti da parte di esponenti della maggioranza non sono mancate (Piero Fassino e, al netto delle sue battute infelici su Virginia Raggi, Vincenzo De Luca). Tuttavia, la sensazione è che Renzi non ne sia rimasto granché impressionato (tanto da provocare le dimissioni di Fabrizio Barca, persona seria e intellettualmente onesta, dalla Commissione per la riforma del partito). A mio avviso, questo è l’aspetto meno convincente del “renzismo” declinato da Renzi nella riunione della Direzione. Il malessere dei ceti più deboli resta diffuso e palpabile.

Il “cantiere sociale” aperto dal governo (copyright Renzi) non è certo disprezzabile, ma non basta. Quel malessere va meglio interpretato e esige risposte più efficaci ed incisive. Soltanto per fare un esempio, è ormai indifferibile una misura (che avrebbe anche un alto significato simbolico) di redistribuzione del reddito a favore dei pensionati al minimo. La verità è che, prima ancora delle giovani generazioni, sono il mondo degli degli anziani a basso reddito e il mondo del lavoro salariato ad uscire con le ossa rotte da un intero quindicennio. E, se le ossessioni securitarie e la grammatica del populismo sono profondamente penetrate nelle fasce più periferiche e marginali di quei mondi, la sinistra ne porta qualche responsabilità.

Perché si tratta di un processo che si delinea già alla vigilia della Seconda Repubblica, colpevolmente rimosso anche per una lettura scadente e approssimativa dei cambiamenti che si stavano aggrumando in quello che -per convenzione- si chiama modello produttivo postfordista. Beninteso, lo slittamento del voto verso le Leghe di ogni tipo (compreso la cyberlega grillina) di vasti strati popolari non è stato solo un fenomeno italiano. Si è manifestato anche nelle culle della socialdemocrazia europea, in cui la centralità laburista ha ceduto il passo ad una rappresentanza “pigliatutto” degli interessi sociali.

Occorre però chiedersi se da noi un partito di sinistra “pigliatutto” possa rinunciare a un forte radicamento nella realtà del lavoro dipendente. La domanda non è oziosa, in quanto -a ben vedere- è proprio intorno a questo nodo che ruota buona parte del confronto interno al Pd. Se infatti non si riesce a rappresentare i bisogni e le aspirazioni di quella realtà, che riguarda circa i due terzi degli occupati, non si va da nessuna parte. Per esserne convinti, basterebbe dare un’occhiata al ciclo elettorale dell’Ulivo e dell’Unione.

Hanno vinto quando il consenso della classe operaia e dei pensionati si è spostato a loro favore. Hanno perso quando il pendolo di quel consenso ha oscillato verso Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Per essere più precisi, nel 2008 il Pd ha perso (sia pure onorevolmente) per un’offerta di modernità priva di solidi ancoraggi sociali e indeterminata nelle sue concrete articolazioni programmatiche. Lo ha testimoniato anche il supermarket delle candidature: operai e imprenditori, sindacalisti degli uni e sindacalisti degli altri.

Dopo ogni sconfitta nelle urne, lo slogan “ripartire dal lavoro” è così puntualmente riapparso nella kermesse delle parole e delle immagini. Senza che venisse scalfito comunque, il paradigma politologico che vuole l’elettore “mediano” arbitro della contesa bipolare. In altri termini, senza sottoporre a un serio vaglio effettuale le arcane alchimie politiche escogitate per conquistare il “cittadino-consumatore moderato”.

Matteo Renzi

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