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Oltre ai partiti bisognerebbe dare un’occhiata ai giornali, diciamo così, di opinione o di area per rendersi conto dei problemi creati dai risultati del primo turno di queste elezioni amministrative del 2016 a chi fa politica candidando e candidandosi e a chi la fa giocando sostanzialmente da sponda, volente o nolente, con titoli, commenti e persino cronache, raramente asettiche ormai.

All’improvviso sono saltati tutti gli schemi, anche quelli di più recente riformulazione. E’ sembrato di assistere francamente al volo di calabroni impazziti.

Quando ho cominciato a leggere, per esempio, il lungo commento ai risultati elettorali affidato dal nuovo direttore di Repubblica, Mario Calabresi, al suo predecessore, il mio amico Ezio Mauro, solitamente di logica rigorosa, quasi militare, ho avuto la sensazione che il giornale fondato da Eugenio Scalfari avesse deciso di ritirare tutte le aperture di credito a Matteo Renzi avvertite nei mesi precedenti. Aperture fatte dallo stesso Scalfari, nei suoi appuntamenti festivi e feriali con i lettori, riconoscendo l’inevitabilità di un certo decisionismo nel governo di paesi e situazioni difficili, e limitando il suo residuo dissenso dal presidente del Consiglio alla riforma costituzionale.

Spero che Ezio non me ne vorrà se certi passaggi del suo ragionamento sulla conduzione troppo personale del Pd e le sue preoccupazioni sul cambiamento quasi genetico che Renzi sta procurando ad un partito che dovrebbe considerarsi di sinistra tradizionale, seppure ammodernata, mi hanno riportato con la memoria a ciò che scriveva e diceva di Bettino Craxi il mio vecchio professore di storia del diritto romano ed ex segretario del Psi Francesco De Martino.

Ma all’improvviso quell’editoriale ha cambiato verso, per ripetere un’espressione cara a Renzi. Dopo avere usato molti dei loro argomenti, Ezio è passato a liquidare anche le minoranze del Pd, accusate di scambiare il segretario del partito per un intruso, di non riconoscere la legittimità della sua elezione, con un misto di primarie e di congresso, e di svolgere un’opposizione interna troppo forte, incoerente e velleitaria. Che sono poi le cose che delle minoranze dice un giorno sì e l’altro pure lo stesso Renzi.

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Uguale sorpresa mi ha procurato la polemica avuta su Libero Quotidiano dal direttore Vittorio Feltri, ancora fresco di ritorno alla guida del giornale da lui fondato ma poi lasciato per tornare al Giornale, con Gianluigi Paragone, che aveva criticato con dura franchezza il segretario della Lega Matteo Salvini. La cui ruspa “si è inceppata” e avrebbe bisogno di “un tagliando”, avendo peraltro “rotto le scatole”. Per non parlare della tendenza leghista, generosamente ignorata da Paragone, ad aiutare i grillini nei ballottaggi comunali del 19 giugno per contribuire a sconfiggere i candidati renziani: cosa che ha procurato a Salvini una bella, compiaciuta vignetta sul Fatto Quotidiano che lo presenta come la “sesta stella” di Grillo. E ha probabilmente indotto Matteo Renzi ad avvertire che in caso di sconfitta dei suoi nei ballottaggi, lui a dimettersi non ci pensa proprio.

Feltri ha difeso il segretario leghista dalle critiche di Paragone come più non poteva, riconoscendogli il merito di avere salvato il Carroccio dallo stato quasi comatoso in cui l’avevano ridotto Umberto Bossi e il suo cerchio più o meno magico. E pazienza se a Milano è stato doppiato da Forza Italia.

Debbo presumere a questo punto che il direttore di Libero condivida di questa specie di salvatore della Patria, oltre che della Lega, anche la partecipazione al fronte referendario del no, una volta tanto insieme con Silvio Berlusconi, oltre che con l’estrema sinistra e con i grillini, alla riforma costituzionale targata Renzi.

Eppure fu proprio per quel no referendario a Renzi e alla sua riforma della Costituzione che si consumò l’avvicendamento alla direzione di Libero fra Maurizio Belpietro, che ne fece il tema del suo editoriale di brusco commiato, e lo stesso Vittorio Feltri, da poco tornato alla sua vecchia testata dal Giornale con un commento in cui spiegava non solo perché riteneva la riforma costituzionale d Renzi meglio di niente, ma anche perché considerava ormai Silvio Berlusconi politicamente “finito”, pur riconoscendo di dovergli molta riconoscenza personale.

Proprio di recente Vittorio Feltri ha dato del “coglione”, nel suo stile che ora va di moda, fa quasi fino, a chi l’aveva scambiato, con il suo ritorno alla direzione di Libero, per un renziano premiato dall’editore Angelucci. Che peraltro continua come deputato a far parte del gruppo di Forza Italia, anche se lo si è visto spesso negli ultimi tempi più con l’amico Denis Verdini, ormai ex forzista, che con Berlusconi. Sarò pure “coglione”, come mi è già capitato di scrivere a proposito di quella sortita antiberlusconiana di Feltri senior, per non confonderlo col figlio Mattia, ma paradossalmente lo sarei forse di più se lo scambiassi per un antirenziano come Matteo Salvini, da lui invece difeso dalle critiche o attacchi di Paragone, il conduttore e custode della Gabbia, fortunata trasmissione de la 7, dove gli ospiti che ne animano il dibattito sono condannati chissà perché a starsene scomodamente in piedi.

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A Maurizio Belpietro, nel frattempo tornato al Giornale, per ora con una lettera tradotta dal direttore Alessandro Sallusti in editoriale, riconosco volentieri la coerenza dell’antirenzismo, anche se non sempre, in verità, ne condivido le motivazioni.

In una cosa certamente Belpietro non ha sbagliato nel commentare i risultati elettorali del 5 giugno: nella celebrazione dei funerali del cosiddetto Partito della Nazione renziano nelle città in cui è stato sperimentato, fra le quali Napoli e Cosenza, con Verdini sceso in campo a sostenere i candidati del Pd.

Vittorio Feltri

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