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L’attacco jihadista di stamane all’aeroporto e alla metro di Bruxelles era solo questione di tempo. Solo ieri, il ministro dell’interno Jan Jambon aveva dichiarato che il paese era al massimo livello di allerta per possibili ritorsioni contro l’arresto di Salah Abdeslam, avvenuto venerdì scorso. E domenica, il ministro degli esteri Didier Reynders aveva ammesso che Salah stava pianificando nuovi exploit, che una nuova rete del terrore armata di tutto punto si era addensata intorno a lui e che azioni eclatanti sarebbero state quindi possibili se non certe proprio a Bruxelles. Lo stesso arresto di Abdeslam aveva messo il Belgio di fronte alla più inquietante della realtà: la primula rossa non era in fuga ma ben nascosto in città, protetto da una comunità che ha preferito solidarizzare con lo stragista che collaborare con la giustizia.

La Bruxelles in ginocchio di stamattina, con la città presidiata dall’esercito e la rete dei trasporti paralizzata, è il simbolo dell’avvenuta penetrazione in Europa di un’ideologia di morte che si è insinuata per anni nelle nostre città, nei quartieri multietnici e nelle tante moschee fai da te fiorite nell’era delle migrazioni di massa. Distratta da altre priorità, disattenta dinanzi ai tanti segnali di pericolo, l’Europa si è fatta contaminare da un virus che si è propagato a macchia d’olio da nord a sud, laddove giungevano i petrodollari e operavano indisturbati gli indottrinatori del wahhabismo saudita e di quella forma globale e intollerante di islam che sta andando per la maggiore negli ultimi anni, il salafismo. Ideologie coltivate nei gruppi di preghiera o in conventicole di amici oppure veicolate nel mare magno della rete e dei social network, col loro carico sovversivo fatto di antioccidentalismo e di odio verso le altre religioni. Ideologie che hanno fatto presa soprattutto tra i più giovani, quelle seconde generazioni di immigrati che non hanno saputo affrontare la sfida della doppia identità e hanno optato per la più drastica delle scelte: il ripudio dell’Europa che ha dato loro i natali e l’abbraccio di una visione del mondo che offre la più granitica delle identità una cui componente centrale è, oltre al mito dello Stato islamico, l’antagonismo verso i modelli occidentali e il desiderio della loro distruzione.

Gli attentati di oggi sono dunque il culmine, quanto mai prevedibile, di un percorso che era stato tracciato da tempo, ricostruito da un pugno di analisti ben documentati ma puntualmente snobbati dal corposo fronte degli intellettuali ammalati di political correctness, l’altra ideologia che ammorba l’Europa e la rende cieca di fronte ai mali che attanagliano un continente esausto e incapace di fare i conti con la gramigna che cresce dentro i suoi confini. Ora che in questa foresta malata è attecchita la pianta tenace dell’ISIS, la battaglia per sradicarla sarà lunga e complessa. Il male che promana dalle bandiere nere e dalle azioni efferate delle milizie califfali ha ormai entusiasmato la gioventù islamica d’Europa, la cui lealtà nei confronti dei Paesi europei che li hanno allevati anche a suon di welfare è ormai compromessa.

Per invertire la china ed evitare che il sangue scorra ancora nel cuore dell’Europa ci vorrà uno sforzo immane, il cui primo passo sarà una fiera azione di contrasto delle ideologie di morte cui si sono abbeverate almeno due generazioni di musulmani trapiantati nel Vecchio Continente. Disarmare i jihadisti significa anche eliminare dal loro arsenale quelle idee venefiche che li hanno condotti a pensare ai loro governi e ai vicini di casa come nemici da eliminare.

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Le radici dell'attacco a Bruxelles

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