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Dopo la formazione del nuovo governo di unità nazionale, che pure non lo include, c’è una vetta che continua a sembrare invalicabile nel futuro della Libia: la figura del generale Khalifa Haftar. Sul nome del militare, oggi a capo dell’esercito dell’est, e su una sua possibile nomina c’è il veto di Tripoli, ma anche di buona parte delle altre fazioni. Una circostanza che alimenta le divisioni nell’ex regno di Muammar Gheddafi.

IL NUOVO ESECUTIVO

La lista dei ministri, pubblicata in arabo dal sito al-Wasat, racconta Rolla Scolari sulla Stampa, “contiene 32 nomi. Una delle poltrone che più ha creato tensioni e contrasti in sede di negoziato sarebbe stata quella della Difesa. Secondo la lista del sito sarebbe andata a Mahdi al-Bargathi che, spiega Mohamed Eljarh, ricercatore libico dell’Atlantic Council, è uno dei comandanti dell’esercito dell’est, di Benghazi. In un primo momento ha partecipato all’operazione” di Haftar, “capo delle truppe, ma recentemente avrebbe preso le distanze da lui”. Le sorti del controverso Haftar e il suo ruolo in un futuro esercito unificato libico sono tra le questioni aperte che hanno portato a scontri nelle trattative. Due membri del Consiglio presidenziale hanno lasciato il tavolo del negoziato nelle ultime ore. L’accordo sul governo è stato raggiunto senza di loro. Per questo, dice Eljarh, l’esecutivo nasce già indebolito dalla mancanza di unanimità”. Ora, infatti, la lista dei ministri dovrà infatti avere il disco verde della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, attualmente diviso.

LA FORMAZIONE DEL GOVERNO

Il governo di unità nazionale, ricorda Vincenzo Nigro di Repubblica, “doveva essere presentato sabato notte: dopo il rinvio di 48 ore deciso dal premier designato Fayez al Serraj, il Consiglio di presidenza avrebbe deciso di portare a 22 il numero dei ministri, abbandonando l’idea di un governo con solo 10 ministri”. Sabato “l’inviato Onu Martin Kobler aveva chiesto” altri due giorni “di tempo per valutare le richieste di Tobruk e dare assicurazioni all’Esercito nazionale libico di Haftar”, che avrebbe voluto fare in prima battuta proprio il ministro della Difesa. In altre parole, prosegue il quotidiano diretto da Mario Calabresi, “serviva qualcosa per superare il veto assoluto che Tripoli (ma anche buona parte delle altre fazioni) hanno messo sul generale che per mesi ha bombardato gli islamisti a Derna e Bengasi compiendo massacri anche di civili”.

CHI È HAFTAR

La storia del generale è complessa. Ex ufficiale del rais, Haftar, rimarca ancora Nigro, “dopo la fallimentare guerra in Ciad, catturato dal nemico fu abbandonato in carcere dai gheddafiani”. Ne uscì grazie alla Cia, “che per 20 anni l’ha protetto negli Usa”. Dopodiché ricompare in Libia “dopo la rivoluzione”. In un primo momento “ha provato a fare una sorta di golpe a Tripoli, poi si è spostato a Tobruk dove è stato armato e sostenuto” dal Cairo.

LA POSIZIONE DI HAFTAR (E DELL’EGITTO)

Guardando le cose dal versante opposto, quello di Tobruk, anche l’ex ufficiale gheddafiano, sostenuto dall’Egitto, è irremovibile. Se da un lato, prosegue il quotidiano diretto da Maurizio Molinari,”la città di Misurata sarebbe interessata a un ruolo guida in un futuro esercito nazionale”, nell’est “Haftar e gli ufficiali a lui vicini vorrebbero mantenere però la loro leadership”.

I DUBBI DI WASHINGTON

Una soluzione, questa, – spiega il New York Times – che però non è vista di buon occhio nemmeno da parte occidentale, in particolare da Washington. Haftar, rileva il Nyt, sembrava, alle volte, “voler governare la Libia come un nuovo uomo forte”, sebbene si sia dimostrato “incapace di controllare completamente anche Bengasi, a poche miglia di distanza dal suo quartier generale”. La sua forza, aggiunge il quotidiano newyorkese, “include unità dell’esercito regolare, ma egli ha fatto affidamento sempre più sull’armare milizia vicine al di fuori del suo pieno controllo” da usare “come suoi proxy”. Per queste ed altre ragioni, “funzionari americani hanno espresso profonda sfiducia nel generale Haftar e nei suoi alleati”.

IL NODO DA SCIOGLIERE

Per Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra, la figura di Haftar è il vero nodo del contendere. “Tutte le forze che combattono lo Stato islamico sul terreno”, spiega, “osteggiano il generale: questo rappresenta un grave limite non solo per la formazione di un governo, ma anche per la lotta ai jihadisti”.
Ma come mai il suo nome è così divisivo? “Haftar è un simbolo, da entrambe le parti. Per i suoi protegge di fatto l’est del Paese, rappresenta la garanzia di mantenere posizioni di potere e controlla elementi come Ali Qatrani, uno dei vice premier che ieri si è ritirato complicando ancor di più il negoziato”.

LE RAGIONI DEL NO

Chi lo osteggia, invece, “ricorda che con la sua Operazione Dignità ha attaccato senza fare distinzioni tutti coloro che considerava islamisti, includendo in questo frangente anche Misurata, che sicuramente non è laica, ma nemmeno filo Fratellanza musulmana” (“alcuni tra questi”, dice ancora il Nyt, “hanno fornito denaro e armi a una coalizione anti Haftar a Bengasi, che include combattenti dell’Isis”. “Il fatto”, aggiunge Toaldo, “che poi si sia più volte presentato come il Sisi libico fa temere a molti che prima o poi si possa proporre come un nuovo dittatore. Questo sicuramente non ha giovato”. Ma su quale sostegno può contare oggi l’ex ufficiale gheddafiano? “Solo sull’Egitto, che sarebbe anche disposto a sostituirlo con un uomo che gli dia le stesse rassicurazioni”.

CHI PREME PER INTERVENIRE

Nelle ultime settimane è stata soprattutto Parigi a distinguersi per un certo attivismo. Ma anche Londra e, da ieri, Berlino, sono pronte a intervenire in funzione anti Isis (ma anche, ha scritto il 15 gennaio Gerardo Pelosi sul Sole 24 ore, con la “convinzione di usucapire con la lotta a Daesh una posizione di forza nella spartizione del ricco bottino energetico che il Paese si troverà a governare ripetendo gli errori del 2011 che hanno favorito l’anarchia attuale”. Gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi premono e si sono resi responsabili, negli ultimi tempi, di una serie di attentati anche nelle zone dove opera la nostra Eni, una delle poche compagnie petrolifere ancora attive nel Paese. Anche per questo l’Italia, invece, col suo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, è tornata lunedì a invocare prudenza: “siamo pronti a dare un contributo” ma prima c’è bisogno di “un passo in avanti ulteriore”, ovvero di una richiesta dell’esecutivo alla comunità internazionale.

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