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Chi conosce e frequenta il presidente Pietro Grasso assicura che, già oberato di suo per essersi troppo esposto a favore della legge sulle unioni civili all’esame rovente del Senato, gli sta costando molta fatica, fisica e politica, attenersi all’obbligo istituzionale di tenersi fuori dalla campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Una campagna cominciata di fatto in uno dei palazzi della Camera nello stesso giorno, e nelle stesse ore, in cui la maggioranza di governo festeggiava il 41.mo compleanno del presidente del Consiglio approvando a Montecitorio la riforma in terza e penultima lettura, come si dice in gergo tecnico.

Insomma, prima ancora che la riforma fosse definitivamente approvata e che potessero scattare le procedure dell’articolo 138 della Costituzione per promuovere il referendum cosiddetto confermativo, i contestatori hanno voluto e potuto allestire la culla del comitato referendario del no. Prima della nascita, d’altronde, viene il concepimento. Ospitato generosamente dalla presidente della Camera.

 

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A infastidire tuttavia il presidente del Senato non sono stati i tempi e luoghi precoci di una campagna referendaria d’opposizione, alla quale, se potesse, egli parteciperebbe volentieri, essendo arcinoto il suo dissenso dalla rinuncia ad un Senato ancora elettivo, per quanto ridotto nel numero dei componenti e delle funzioni. Sono stati, piuttosto, i toni secondo lui addirittura da “vilipendio delle istituzioni” usati dal comitato referendario del sì, anch’esso in via di concepimento: usati, in particolare, da chi ha scommesso sul referendum la sorte del governo, e le fortune personali di Renzi, e/o ha attribuito alla riforma il merito popolare di sgomberare il campo da un Senato “inutile” e troppo dispendioso.

 

Vilipendio, che è la parola usata con orrore da Grasso in una intervista alla Stampa, mi sembra francamente eccessivo. Avrebbero allora il diritto di farsene scudo anche i sostenitori delle Province, che con la riforma scompaiono finalmente dalla Costituzione, con 45 anni di ritardo rispetto al loro superamento con l’elezione dei Consigli delle regioni ordinarie. O i reduci del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che ne presidiano la sede nel parco di Villa Borghese, in attesa che la riforma sopprima davvero l’istituto, servito per troppi anni, francamente, come destinazione finale e consolatoria di sindacalisti, di amici delle autorità di turno e di politici appena dismessi dal Parlamento, e dintorni.

 

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A parte l’esagerato timore di assistere inerme a un vilipendio istituzionale, si può capire la delusione di Grasso per l’epilogo non proprio felice di un Senato elettivo che non più tardi di tre anni fa lo gratificò come meglio non poteva, promuovendo alla presidenza proprio lui, che vi era appena approdato per grazia ricevuta dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, con il sistema delle liste bloccate.

Egli ora può mestamente entrare nella storia parlamentare della Repubblica come l’ultimo presidente del Senato elettivo, anche se qualche amico ne sogna generosamente al prossimo turno l’elezione alla Camera per diventarne anche lì presidente. E conservare, con le modiche costituzionali eventualmente ratificate con il referendum, il ruolo di capo dello Stato supplente, in caso di assenza o altro impedimento di Sergio Mattarella.

 

Grasso deve tuttavia convenire di aver fatto poco per tenere affezionato al vecchio Senato la maggior parte possibile dei gruppi o partiti, specie di quelli decisivi, nella fase di avvio della riforma.

Anche se ora sembra tornato a tutti gli effetti all’opposizione, schierando quel che resta della sua Forza Italia nel concepito e variopinto fronte referendario del no, Silvio Berlusconi ha dato un aiuto non da poco a Renzi nel passaggio da un Senato elettivo ad un Senato ad elezione indiretta e ruolo ridotto. Un aiuto conforme alla delusione procuratagli nell’autunno del 2013 proprio da Grasso, intervenuto a gamba praticamente tesa nelle polemiche e nei conflitti procedurali per accelerare la decadenza di Berlusconi da senatore, dopo una condanna definitiva per frode fiscale e in applicazione retroattiva di una legge -chiamata Severino- finita poi per altri versi al giudizio della Corte Costituzionale. Il tutto con la ciliegina tossica di una votazione a scrutinio palese, pur essendo in gioco una persona, e non solo l’invocata salvaguardia del cosiddetto plenum dell’assemblea.

 

Quella votazione a scrutinio palese scattò contro Berlusconi come un catenaccio, impedendo ai dissidenti del Pd, che non mancavano, di esprimersi più liberamente in una votazione a scrutinio segreto. Ne derivarono la scissione del partito berlusconiano, la caduta del governo di Enrico Letta, la nascita del governo di Renzi e la riforma, e declassificazione, del Senato. Come in una logica da contrappasso. Un contrappasso politicamente feroce.

 

Tutti i malumori di Grasso sul Senato riformato da Renzi e Boschi

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