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I repubblicani escono male dalla raffica di voti in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina, Ohio, che riducono a tre il lotto degli aspiranti alla nomination, ma acuiscono le tensioni. E, per prima cosa, salta il dibattito sulla Fox di lunedì dallo Utah causa mancanza di ‘quorum’.

Sono ore di apprensione fra i conservatori ‘per bene’, tradizionali e moderati, che si rendono conto di essersi persi per strada uno ad uno i loro campioni (magari mal scelti, bisogna ammettere): i ‘figli della Florida’ sono usciti di scena l’uno dopo l’altro in meno d’un mese, prima l’ex governatore Jeb Bush, ritiratosi a febbraio senza essere mai riuscito a fare decollare la sua campagna, e ora il senatore Marco Rubio, il più giovane fra i 17 complessivamente scesi in lizza, indotto a lasciare dalla sconfitta in casa subita martedì.

E sono ore d’agitazione pure per Donald Trump, il battistrada showman, che vince a raffica – senza per altro convincere tutto il suo campo -, ma che resta esposto al rischio d’arrivare fino alla convention di luglio senza la maggioranza assoluta dei delegati. Invece, fra i democratici, Hillary Clinton viaggia spedita verso la soglia di delegati che le garantisce la nomination, mentre Bernie Sanders spera ancora nel Missouri per evitare il cappotto.

La ‘convention aperta’ è evento rarissimo ed è un po’ uno spauracchio per tutti: significa sciorinare davanti all’elettorato divisioni e incertezze. Del resto, l’establishment repubblicano pare non fidarsi a pieno, come anti Trump, neppure del governatore dell’Ohio John Kasich, che martedì ha vinto nel suo Stato, ma che non ha finora avuto altri acuti nella sua campagna. E il terzo candidato, il senatore del Texas Ted Cruz, iper-conservatore ed evangelico, non è meglio di Trump, dal punto di vista del partito: populista come lui, ma meno popolare e poco simpatico.

Così, si rovista nei cassetti del 2012: lì, ci sono Mitt Romney, candidato battuto dal presidente Obama, che s’espone in campagna contro Trump, ma non scende in campo, e il suo vice, oggi speaker della Camera, Paul Ryan, che, chiamato in causa da John Boehner, si tira indietro, “non mi candido”. Gli ‘assi nella manica’, o i ‘cavalli di razza’, sono merce rara.

Trump avverte aria di fronda e fa la voce grossa, prospettando disordini nelle strade se non otterrà la nomination – il che rafforza le preoccupazioni dei moderati nei suoi confronti – e chiamandosi fuori dal prossimo dibattito, il 21 marzo, perché – dice – “ne abbiamo già fatti troppi” (il che, magari, è vero). Kasich replica subito che, se non c’è Trump, non ci sarà neppure lui: che senso avrebbe stare a scannarsi con il senatore Cruz, mentre lo showman si tiene in disparte? E così la Fox cancella l’evento, che sarebbe diventato un ‘one man show’.

Per Donald Trump, la convention aperta rischia di diventare un’ossessione; e, se ci cade dentro, una trappola. Per questo, cerca di forzare i tempi e di indurre il partito a seguirlo mostrando una forza che, in termini di delegati, non ha. E il calendario non aiuta: il mese davanti ha voti radi, specie per i repubblicani, e in Stati non determinanti, così che è probabile che i rapporti di forza resteranno sostanzialmente inalterati, fino alle primarie di New York, il 19 aprile.

Delle primarie di martedì, i risultati restano parziali, perché il Missouri non è stato ancora assegnato: si verificano le schede, essendo le distanze tra Trump e Cruz fra i repubblicani e tra la Clinton e Bernie Sanders fra i democratici molto ridotte. Nei quattro Stati già attribuiti, Hillary ha calato il poker, Trump ha fatto tris: entrambi si sono imposti in Florida, Illinois, North Carolina; Hillary ha pure vinto l’Ohio, dove, invece, fra i repubblicani, s’è imposto Kasich.

Perché i Repubblicani sono sull'orlo di una crisi di nervi

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