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3700 migranti stanno ammassati in un accampamento di fortuna a Calais in Francia, col desiderio di poter partire per l’Inghilterra. Di loro 326 sono bambini, in gran parte abbandonati. L’Inghilterra non ha alcuna intenzione di accoglierli. Il ministro degli Interni francese ha deciso l’inizio della evacuazione forzata del campo. 250 migranti e 10 associazioni umanitarie hanno fatto ricorso alla giustizia amministrativa di Lille, per rendere nullo il decreto del ministero. Ma il tribunale ha respinto il ricorso e quindi il campo comincerà ad essere smantellato. Nello stesso tempo il ministro degli Interni belga ha deciso di sospendere la validità del trattato di Schengen e ha stabilito il controllo frontaliero tra Belgio e Francia: in poche parole il Belgio non vuole altri immigrati, che per lo più stavano arrivando dalla Francia.

La sinistra francese urla contro la politica dei respingimenti del governo, peraltro presieduto da un socialista; e lo stesso sindaco di Lille (dipartimento di Calais), la socialista Martine Aubry, figlia di Jacques Delors, catto-socialista, già presidente della Commissione europea, si è schierata contro Manuel Valls, primo ministro sempre socialista. Anche i nazionalisti urlano “ve lo avevamo detto e già da molto tempo”.

In conclusione ci sono venti di burrasca nell’esagono, anche perché il problema dell’immigrazione si attorciglia con quello dell’islamismo e della identità nazionale del Paese. E in mezzo ora ci sono questi 3700 migranti, che nessuno sembra volere, a parte il “vogliamoci bene” di associazioni umanitarie e retoriche politiche. Cosa fare?

Intanto la rimessa in questione di Schengen non solo ai confini dell’Europa, ma anche nel suo cuore storico, nei fatti significa che bisogna provvedere (non pensare soltanto) al dopo Schengen; bisogna in poche parole rivedere il trattato sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione. Pensare che il precedente gravissimo registratosi tra Belgio e Francia costituisca solo un incidente congiunturale, è pia illusione; il fatto non è “poliziesco”; esso è politico e ci vogliono coscienza e capacità politiche per risolverlo.

I migranti da tutti rifiutati sono bloccati nell’accampamento di Calais, chiamato la “giungla”; non possono più muoversi né avanti (Inghilterra), né indietro (Francia) né di lato (Belgio); né possono tornare a casa, sempre che ne abbiano ancora una, per mancanza di documenti e di soldi. E i 3700 della giungla di Calais rappresentano solo la punta di un iceberg enorme che sta attraversando tutta l’Europa. Ogni singolo provvedimento può essere giusto o contestabile; ma è sempre provvisorio, congiunturale, assolutamente non risolutivo. I capi di questa Europa devono chiudersi in una stanza e decidere su cosa vogliono fare sul problema di queste migrazioni bibliche dal sud al nord del mondo, dalle zone di guerra a quelle di pace; e non uscire da quella stanza se non con una decisione; ne rispondono alla storia di questo continente. E se non si mettono d’accordo, ogni Paese non potrà che riprendere la propria autonomia di decisione e di azione in materia.

Un ultimo problema, ancora di “metodo”: ma queste Nazioni Unite proprio non c’entrano nulla? Non possono fare nulla? Solo mantenere decine di migliaia di persone che si passano carte in centinaia di lingue tra sedi, Paesi e continenti?

Le immagini della giungla di Calais sono raccapriccianti; molti di questi migranti forse vorrebbero tornare a casa e tutti vorrebbero uscire da questa “giungla” dove si sono cacciati o dove sono stati intrappolati. E come loro altre centinaia di migliaia in tutta Europa. Il tempo delle parole è ormai finito.

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