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Il conflitto in Ucraina, che nella mente dei suoi ideatori era destinato a risolversi in pochi giorni di rapidi combattimenti, si appresta a raggiungere nelle prossime ore il suo secondo anniversario. Sul campo di battaglia non si assiste più alle rapide manovre dei primi giorni della guerra, ma a dominare sono dinamiche d’attrito, raffigurati perfettamente dai lunghissimi chilometri di trincee che si estendono lungo il fronte. In questo contesto la capacità economica e produttiva (oltre che demografica) di una parte belligerante diviene ancor più fondamentale, poiché per avere la meglio sull’avversario è necessario erodere le sue riserve di risorse umane, militari ed economiche.

Da questo punto di vista, la Federazione Russa potrebbe facilmente avere la meglio sulla più piccola e meno ricca Ucraina. Ma il conflitto in Ucraina non è un sistema chiuso, ed al suo interno dev’essere considerato il ruolo di altri attori di queste dinamiche di attrito. Come ad esempio la Corea del Nord, che da svariati mesi rifornisce le forze armate russe con armamenti e munizioni di vario genere, un carburante preziosissimo per la più che mai assetata macchina da guerra di Mosca. O come gli Stati Uniti e l’Unione Europea, che giocano un ruolo decisamente più complesso dell’autocrazia socialista asiatica: oltre a rifornire l’Ucraina di equipaggiamenti che le permettono di portare avanti la sua resistenza, il loro peso nell’interdipendente sistema globale le rende capaci di influenzare, direttamente o meno, la base economico-industriale moscovita. E in parte già lo fanno, tramite le sanzioni comminate all’indomani dell’inizio delle ostilità. Ma si può fare di più?

In un articolo pubblicato su Politico, Gabriel Gavin, Koen Verhelst e Victor Jack suggeriscono alcuni provvedimenti che l’Unione Europea potrebbe adottare per colpire duramente l’economia russa, così da inficiarne la possibilità di continuare a sostenere (almeno agli stessi ritmi) lo sforzo bellico in Ucraina. A partire dal fissare un tetto concreto al prezzo del petrolio, intaccando una delle poche ancore di salvezza rimaste al Cremlino. Nel dicembre 2022 un tetto al prezzo del petrolio russo (pari a sessanta dollari al barile) era già stato imposto, nella speranza di costringere la Russia a mantenere le forniture per stabilizzare il mercato globale, tagliando al contempo i profitti derivanti dalle vendite. Ma Mosca ha trovato il modo di aggirare queste limitazioni, e oggi praticamente nessun petrolio viene venduto al di sotto dei sessanta dollari al barile. Paesi come India, Turchia e Cina acquistano il greggio russo a qualsiasi prezzo e lo raffinano in benzina, diesel e altri carburanti, per poi venderli altrove. Impegnarsi nel chiudere questa lacuna potrebbe rivelarsi un game-changer nel conflitto. Ma in questo senso pesano la mancanza di accordo tra gli alleati occidentali e i timori di un aumento dei prezzi dell’energia.

Oltre al petrolio, anche il gas continua a rimanere una fonte di introiti per il Cremlino. Nel 2023, circa il 15% delle importazioni di gas dell’Unione proveniva dalla Federazione Russa, con Paesi come il Belgio e la Spagna che hanno incrementato la quota nazionale di gas importato da Mosca (mentre l’Ungheria si è ripromessa di fare lo stesso), in direzione opposta alla generale tendenza alla diversificazione. Secondo il Center for Research on Energy and Clean Air, negli ultimi due anni l’Ue ha pagato più di ottanta miliardi di euro per ricevere il gas dalla Russia. “È ancora una questione di sicurezza degli approvvigionamenti”, ha dichiarato in forma anonima un diplomatico contattato dai giornalisti di Politico.

Un’altra opzione, su cui alcune capitali europee (in particolare Tallin, Riga, Vilnius e Varsavia) stanno già lavorando, è quella di vietare completamente tutte le importazioni di alluminio russo, dato che circa l’80% del lucroso commercio di questo metallo con la Russia non è attualmente soggetto a sanzioni. La Commissione europea non ha incluso l’idea nella sua ultima proposta di sanzioni, affermando però che la misura potrebbe essere inserita in un futuro pacchetto, purché essa sia sostenuta all’unanimità. Anche in forme leggermente più morbide, come un’introduzione graduale del divieto, sulla scia di quanto fatto nel caso dell’acciaio o della ghisa. Le lastre russe sono molto più economiche delle loro alternative prodotte in Europa, e grazie alla loro importazione si stima che le aziende russe guadagnino circa 2,2 miliardi di euro annui. Chiudere questo rubinetto avrebbe un effetto concreto.

E ancora, andare a chiudere le “falle” nel sistema di limitazione alle esportazioni verso Mosca delle tecnologie dual-use, impiegabili cioè sia in contesti civili che in ambiti militari. Oltre alle già citate India, Cina e Turchia, che svolgono il ruolo di intermediari esattamente come nel caso del petrolio, anche altri Paesi come la Georgia (quella Georgia a cui è stato concesso lo status di candidato all’Ue) hanno deciso di non uniformarsi alle sanzioni occidentali. Sebbene sia Bruxelles che Washington si stiano impegnando in questo senso, chiudere queste scappatoie più velocemente di quanto i sostenitori di Putin riescano ad aprirle potrebbe risultare molto complesso. Anche per questioni “interne”: tecnicamente Bruxelles dispone di strumenti legali per sospendere tutti gli scambi commerciali di un determinato prodotto con un Paese straniero se esso non rispetta le misure adottate dall’Unione. Ma per compiere questo passo è necessaria l’unanimità di tutti i Paesi-membri, il che rende particolarmente difficile una sua applicazione, come nel caso dell’alluminio.

Infine, vi è anche la questione nucleare. Mosca continua ad essere un attore importante nell’industria dell’energia atomica civile del blocco europeo, e sebbene il settore non sia uno dei maggiori guadagni di Mosca, offre sia un’enorme leva di soft power che la possibilità di accesso per le aziende statali russe a infrastrutture sensibili degli Stati-membri. Tuttavia, ancora una volta, la barriera per un’azione più dura sembra essere l’Ungheria, che sta collaborando con Rosatom per espandere la sua dimensione civile nucleare. Il primo ministro Viktor Orbán ha infatti già giurato di bloccare qualsiasi sanzione relativa al settore specifico, rendendo così impensabile qualsivoglia azione in questa direzione.

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