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Arabia Saudita e Turchia hanno annunciato di essere pronte a guidare un intervento militare di terra in Siria che avrà come obiettivo dichiarato distruggere lo Stato islamico, e non dichiarato dare sostegno ai ribelli amici, messi in difficoltà dall’avanzata del regime su Aleppo e su altre zone del Paese più a sud, grazie al sostegno di Russia, Iran e milizia sciite. Gli Emirati Arabi hanno messo a disposizione una manciata di forze speciali che affiancheranno i team americani che fanno consulenza ai ribelli, e sabato un contingente saudita composto da 20 caccia F15 e pare alcuni reparti terrestri s’è già spostato nella grande base Nato di Incirlik, in Turchia, da dove partono molti dei raid che colpiscono l’Isis sul territorio siriano. Siamo probabilmente vicini alla fase più critica della guerra, che si sta trasformando sempre più da civile, con interessi regionali, a globale.

LA LINEA DI ASSAD

Nel frattempo il presidente siriano Bashar el Assad intervistato da France 24 ha già dichiarato che ormai (“ormai” visto i nuovi successi sul campo, un mese fa era dato per spacciato, prima che i russi pigiassero fino in fondo il pedale dell’acceleratore) il suo obiettivo è di riprendere tutto il paese, cacciare i terroristi (che nella sua narrazione non sono solo gli estremisti ma tutte le fazioni rivoluzionarie), impiegando tutto il tempo necessario. Ossia, il regime di Damasco annuncia che la guerra per fiaccare i rivoluzionari sarà ancora lunga, e gli sponsor esterni della rivoluzione decidono di aumentare il proprio coinvolgimento: il quagmire, il pantano, definitivo, mentre ogni ora di combattimento miete vittime civili, tra morti, feriti e persone che fuggono dal paese.

LA TREGUA PER ADESSO NON ESISTE

Tutto, in teoria, si inquadra in una fase di tregua: il cessate il fuoco congiunto raggiunto durante un incontro congiunto tra i paesi in gioco durato ore a Monaco di Baviera, che dovrebbe permettere il passaggio del primo convoglio umanitario verso Aleppo già domenica (oggi), non è ancora operativo sotto nessuno dei punti di vista – le armi dovrebbero smettere di sparare nell’arco di una settimana dalla firma, ormai qualche giorno fa, ma è una speranza su cui dire che regna lo scetticismo è eufemistico.

SE ENTRASSERO I SAUDITI

A Riad l’idea di un intervento militare in Siria piacerebbe, solo che stanno aspettando il via libera definitivo della Coalizione a guida americana (quella di cui fa parte anche l’Italia) in cui sono inseriti: l’argomento è stato sicuramente discusso nelle riunioni laterali al vertice sulla sicurezza di Monaco svoltosi nei due giorni passati. Da lì il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato la disponibilità alla partnership, nell’ottica del supporto all’alleanza creata dai sauditi, la cosiddetta “Nato islamica”, che racchiude tutte le principali nazioni sunnite della regione (la Turchia è un partner esterno, diciamo, visto che fa già parte della Nato) e di cui è previsto un importante vertice la prossima settimana.

UNA QUESTIONE DI NARRAZIONE (ANCHE)

I ribelli sul campo si lamentano di essere rimasti soli (ossia, senza il supporto di armamenti, e soldi per comprarne altri sul mercato nero, che finora è arrivato dai petrodollari del Golfo), e questo dispiace al regno saudita. In Siria si combatte anche una guerra ideologica: Assad è alawita, una setta dello sciismo, i suoi alleati sono tutti allineati in una sorta di asse sciita che comprende Iran, Iraq, Hezbollah libanesi, amici della Russia (lo chiamano il “4+1”). Perdere i ribelli significa anche perdere questo confronto che accede ad un terreno ideologico vecchio secoli, significa, nella narrazione, lasciare solo un popolo davanti all’avanzata dell’altro. Le divisioni culturali ed etniche non devono però distrarre dalle mire geostrategiche e geopolitiche: la Siria, come l’Iraq, sono territori cruciali (per esempio: ognuno dei due paesi potrebbe rappresentare per il Medio Oriente l’importanza che la Francia ha in Europa), su cui non solo per questione di prestigio ideologico, ma anche per ragioni pratiche e di interesse, il Golfo non vuole la presenza iraniana. Teheran si trova in una difficile situazione, invischiato da anni in Siria in una questione nazionalistica e ideologica simile a quella saudita, ma deve, a fronte delle opportunità concesse dalla riqualificazione post-deal, mostrarsi collaborativo: domenica, come annunciato dal vice presidente, arriverà in Europa il primo carico di petrolio iraniano, 4 milioni di barili; Teheran sa che per rendere più redditizio l’export, alzando cioè il prezzo di vendita, deve trattare con quei paesi dell’Opec che trova dall’altro lato dello schieramento nella guerra siriana.

SE ENTRASSERO I TURCHI

Ankara è infuriata: da mesi sostiene la sua completa contrarietà al piano di appoggio ai combattenti curdi siriani pensato dagli Stati Uniti. I turchi considerano le milizie Ypg un gruppo terroristico: “Abbiamo perso cinque ore a mostrare a Biden (il vice presidente americano volato settimane fa in visita in Turchia, ndr) le prove dei collegamenti tra curdi siriani e turchi del Pkk”, ha detto il primo ministro Ahmet Davutoglu, che aggiunge che ai separatisti turchi del Pkk sono finite in mano armi fornite ai curdi siriani dagli americani. E dunque, l’appoggio turco ai sauditi segue due punti dell’agenda personale di Ankara: il primo è il sostegno ai ribelli amici che combattono per procura il governo di Damasco, il secondo il tentativo di bloccare l’avanzata dei curdi, che stanno approfittando della situazione per guadagnare terreno da ascrivere al proprio territorio autoproclamato, il Rojava, che la Turchia vede come una minaccia nazionale, non solo perché è addossato ai propri confini, ma perché si collegherebbe all’area curdo-turca, rivendicata per anni e attualmente di nuovo teatro di una guerra che il governo centrale sta combattendo spietatamente contro i separatisti. Terzo punto, meno dichiarato, il confronto con i nuovi odiati nemici russi, la Turchia li vuole fuori dal Medio Oriente, tanto più se sostengono linee di interesse opposte alle proprie.

ASPETTI CRITICI

Arrivati a questo punto, difficile pensare che i Paesi sunniti, sauditi in testa, possano evitare un aumento del coinvolgimento nel conflitto siriano, come detto per un mix di ragioni d’estetica e di sostanza. Il problema è che le criticità sono molte e complesse. Riad è già impantanata in una guerra senza luce in Yemen (la chiamano “il Vietnam saudita”, per capirci): là ci sono schierati i reparti migliori, ossia quelli che lo sono sulla carta, perché in pratica non avevano mai affrontato la battaglia, e questo ha pesato davanti ai più esperti guerriglieri houthi. Non sottovalutare che entrando in Siria si troverebbero davanti gli esperti miliziani sciiti, gli altrettanto caparbi Hezbollah, tutti diretti dai Pasdaran iraniani: una forza di combattimento se non superiore in mezzi, di certo migliore in capacità. Questo sul lato informale: su quello formale dell’intervento, la lotta all’Isis, i problemi sarebbero ancora maggiori. L’Arabia Saudita si troverebbe clamorosamente esposta a ritorsioni sul proprio territorio e sul terreno siriano, attentati e scorribande: una situazione che farebbe il gioco dei baghdadisti, i quali non perdono occasione di insultare “l’apostata dinastia Saud” alleata dell’Occidente e nemica dell’Islam. Problemi analoghi per i turchi, che avrebbero davanti anche i russi e rischierebbero di subire oltre le angherie del Califfo (che ha già molto dolorosamente colpito la Turchia) anche quelle dei curdi di casa propria, che sulla guerriglia alle forze dell’ordine centrali hanno basato un’attività decennale.

LA DIFFICILE POSIZIONE DELL CASA BIANCA

A Washington serve una mano, perché per guidare praticamente da solo le attività della Coalizione l’impegno attuale non basta, e lo step up necessario sarebbe un problema politico, perché andrebbe in direzione contraria al disimpegno richiesto dall’opinione pubblica, in una delicata fase elettorale. Per questo ha accettato di buon grado l’invio dei reparti speciali emiratini, che gli americani conoscono avendoli armati e addestrati, dunque si fidano di poterli coordinare a piacimento. Più difficile se turchi e sauditi si mettessero praticamente in proprio: a quel punto l’America, alleata di entrambi, si troverebbe molto esposta nei confronti di tutti gli attori in gioco, e probabilmente Barack Obama impegnato nel costruire la propria legacy a pochi mesi dal lasciare la Casa Bianca, non è questo che cerca.

Come si muoveranno Turchia, Arabia Saudita, Russia e Usa in Siria

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