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Il presidente del Consiglio italiano italiano Matteo Renzi frena sulla “bomba facile” per risolvere la crisi libica: parlando da Villa Firenze, sede dell’ambasciata italiana a Washington prima di raggiungere gli altri leader mondiali al Nuclear Security Council, venerdì Renzi ha rivendicato il ruolo di leadership italiana sul dossier Libia, ma ha spiegato che “leadership significa che siamo pronti a dare una mano dal punto di vista degli aiuti sociali, delle forze di polizia, della cooperazione internazionale, non che ci alziamo la mattina e andiamo a bombardare qualcuno”.

Due giorni fa il ministero degli Esteri italiano ha stanziato 1 milione di euro come finanziamento multilaterale di emergenza a favore del Pam, il Programma alimentare internazionale. Soldi, spiegano dalla Farnesina in una nota fornita a Formiche.net, che serviranno per distribuire “circa 860 tonnellate di alimenti (farina, riso, pasta, ceci, passata di pomodoro, olio vegetale e zucchero) destinate a 70.000 beneficiari (14.000 famiglie), scelti fra le categorie più vulnerabili (15% bambini con meno di 5 anni, 36 % minori fra i 5 ed i 17 anni) della popolazione della Libia Occidentale (Tripoli e dintorni)”. Il finanziamento si aggiunge ad un altro da 1,4 milioni partito a gennaio.

Il momento è particolarmente delicato: il governo di unità nazionale sponsorizzato dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez Serraj sta ottenendo i primi feedback libici, dopo la serie di minacce e invettive che hanno accompagnato l’insediamento. Sabato altre dieci municipalità, dopo le dieci di venerdì, hanno annunciato il sostegno a Serraj, che venerdì è uscito per le strade di Tripoli, stringendo mani, e poi è andato a pregare in moschea.

Era stato proprio il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a confermare che nella conversazione telefonica avuta con il nuovo premier libico Tripoli, per adesso, “non ci ha chiesto contributi militari ma economici, aiuti umanitari e medici. Loro si devono prima consolidare. Il primo messaggio del nuovo governo non può essere ‘chiediamo un intervento‘”. “Vanno evitati gli errori commessi in passato e che ci hanno portato in questa situazione”, ha detto Renzi. Errori che secondo Carmelo Lopapa di Repubblica, giornalista che sta seguendo il viaggio del premier in America, Renzi “imputa, per la parte italiana, ai suoi predecessori”.

Il padrone di casa Barack Obama sembra che apprezzi molto la prudenza con cui Renzi sta affrontando la vicenda libica, ma allo stesso tempo potrebbe chiedere all’Italia una sollecitazione ad agire contro lo Stato islamico, che l’America considera finora l’unico fattore di interesse in Libia (anche se ultimamente pare che l’intelligence americana abbia messo nel mirino anche le milizie libiche che si oppongono al governo Serraj, ma solo con il fine di “solidificare una struttura” come ha definito Obama le urgenze libiche). Renzi sa che davanti ad eventuali accelerazione e pressioni, inglesi e francesi potrebbero sganciarsi dalla posizione europea più attendista e allinearsi con Washington. Sul campo, i team delle unità speciali sono già impegnate, e lo stesso presidente del Consiglio italiano giorni fa ha detto che missioni mirate potrebbero continuare, ma senza aprire fronti più ampi in assenza richieste dirette libiche; una sorta di piano di risposta ad un eventuale pressing americano (qualche Tornado e pochi reparti speciali, ma di intenso impegno operativo).

L’Italia appoggia completamente Serraj e la sua ricerca di stabilità a Tripoli anche per una questione di interesse nazionale: a sud di Tripoli, e sotto la sua area di influenza, si trova il grande terminal Eni di Mellitah e nell’area intorno si posizionano le aziende italiane di vario genere che dal business libico alzano qualcosa come un miliardo di indotto annuo. Difendere Tripoli significa anche sperare che Serraj riesca a far sue tutte le milizie locali da cui dipende la stabilità della zona. Questo appoggio è forse anche una linea geopolitica contro l’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, principale alleato italiano nella regione nordafricana, schierato invece apertamente con il governo di Tobruk – che si ricorda, ha brigato per non votare l’assenso al governo di Serraj – ma con cui Roma è formalmente ai ferri corti per la vicenda dell’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni.

Altri due aspetti: intervenire pesantemente in Libia non solo potrebbe portarsi dietro il rischio di fare da magnete per tutte le fazioni sul campo, attive a poche centinaia di chilometri da Roma, ma quasi sicuramente significarebbe aprire un altro fronte del flusso migratorio, aspetto ritenuto di primissimo piano dal governo italiano.

Renzi frena sulla Libia, Obama pressa un po'

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