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Le porte, in Inghilterra, le hanno aperte da tempo, facendo della finanza islamica una realtà perfettamente integrata nell’economia britannica. In Italia, invece, l’ingresso alla finanza applicata ai dettami del Corano è rimasto, per ora, una chimera, secondo i sostenitori di questo tipo di finanza. Un vero peccato, si dice in alcune parti della commissione Finanze della Camera, dove il Pd vorrebbe portare un progetto per regolamentare e agevolare anche in Italia un movimento che vale 2.000 miliardi di dollari nel mondo, 138 miliardi solo in termini di emissioni di sukuk, l’equivalente musulmano dell’obbligazione. Perché, ci si chiede, se solo una piccola parte di questi capitali entrasse in Italia, di certo qualche beneficio ci sarebbe per l’economia nazionale, o no? Eppure, l’Italia rimane allergica a tale approccio finanziario, visto in contrasto con il settore bancario tradizionale e continuando ad alzare i ponti levatoi.

IL VIZIETTO DELLE BANCHE

Per capire perché finora l’Italia non abbia seguito la strada della Bank of England (ma anche della Francia o della Germania) nonostante gli appelli del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, Formiche.net ha sentito Fabrizio Petrucci, Fabrizio Petrucci, partner dello Studio Legale Delfino Willkie Farr & Gallagher. “Gli istituti bancari giocano un ruolo fondamentale nell’introduzione della finanza islamica. Si tratta però di un expertise ancora poco diffusa tra gli addetti ai lavori e di uno strumento che, a volte, viene percepito come una nuova forma di concorrenza difficilmente gestibile”, spiega l’avvocato italiano. In altre parole, la scarsa conoscenza della materia si mischia pericolosamente ad una certa paura verso strumenti come sukuk o prestiti senza tassi di interesse. Che in un momento in cui le banche italiane non godono certo di popolarità presso la gente comune sarebbero molto probabilmente visti come una pericolosa concorrenza alla diffusione dei tradizionali strumenti di credito. Importare la finanza islamica in Italia è dunqua una battaglia del tutto persa? Forse no, visto che per Petrucci “fortunatamente non mancano esempi di competenza e attenzione al tema, anche all’interno di alcune grandi banche italiane”. Ma di qui a parlare di economia italiana sharia compliant, ce ne vuole.

COSA SI PERDE L’ITALIA

Ma quanto costa all’Italia, Paese in cui popolazione islamica residente costituisce il 24,4% della presenza straniera e l’1,4% della popolazione italiana, rinunciare all’ingresso della finanza islamica? Intesa non solo come metodo alternativo del fare credito, ma anche in termini di approdo di grossi capitali. “Certo, l’atteggiamento diffidente e la scarsa conoscenza della materia rischiano di far perdere all’Italia grandi investimenti”, spiega Petrucci.  “I fondi e le istituzioni finanziarie islamiche, infatti, potrebbero contribuire in modo decisivo alla realizzazione, per esempio, delle nostre infrastrutture: basti pensare a cosa hanno fatto i fondi sovrani del Qatar intorno a Parigi”. E quanto pesa il fattore terrorismo? “Secondo Petrucci, poco o nulla. Semplicemente “ci si barrica dietro la questione del terrorismo, della resa alla cultura islamica che in realtà centra poco o nulla con la refrattarietà alla finanza islamica”.

 DIPENDE TUTTO) DALLE BANCHE?

L’Italia però non potrà resistere troppo a lungo, perchè la globalizzazione avanza e un’integrazione della finanza islamica anche nelle economia più ostiche, è un processo inevitabile. “L’Italia è poco incline al cambiamento, e questo è uno dei motivi per cui la finanza islamica non si è ancora affermata nel nostro Paese, a differenza di altre realtà europee come la Germania, la Francia e il Regno Unito. È un tema su cui si dibatte da molto tempo, a livello legislativo ed esecutivo, ma solo adesso ha ottenuto un posto nell’agenda e si scorge una possibilità di apertura più concreta: alla Camera qualcosa potrebbe muoversi in questa legislatura, noi abbiamo presentato tempo fa delle proposte in questo senso “, spiega ancora Petrucci. Già, ma quando di preciso? Anche in questo caso l’avvocato ha un’idea piuttosto precisa, che riporta inevitabilmente al ruolo delle banche in tale partita. Si potrebbe riassumere così: saranno gli istituti a decidere. “La verità è che la vera accelerazione, se ci sarà, avverrà quando un banchiere italiano dirà pubblicamente che la sua banca ha reperito liquidità in quantità significative grazie ad operatori sharia compliant“. Ovvero, quando qualcuno ai piani alti di qualche istituto ammetterà che si può fare tranquillamente della liquidità ricorrendo alla finanza islamica, sdoganando una volta per tutte un universo da miliardi di dollari.

IL CASO INGLESE (MA ANCHE FRANCESE E TEDESCO)

C’è un caso che su tutti ha fatto scuola, quello inglese. La Gran Bretagna è stata una delle prime nazione occidentali a emettere sukuk sovrani, ovvero bond islamici conformi alla Sharia, che non permettono il carico o il pagamento di interessi. Inoltre, contestualmente, la Borsa di Londra lancerà un indice per identificare le opportunità di investimento conforme ai principi islamici, che mirerà a capitalizzare la forte crescita del settore. Non solo. Da qualche anno Londra ha concesso a una ventina di istituti di credito operanti nella finanza islamica apposite “islamic windows” ovvero sportelli con la possibilità di creare conti correnti speciali che utilizzano la compartecipazione agli utili al posto della garanzia sul valore nominale del deposito attraverso i tassi di interesse, vietati dalla Shari’a. E non c’è solo il Regno Unito ad essere anni luce avanti all’Italia sul campo della finanza islamica. In Francia, per esempio, a partire da giugno 2011 la Chaabi bank ha cominciato a offrire conti deposito per clienti, arrivando a 500 nuovi depositi registrati ogni mese e a un tasso di acquisizione in continua crescita mentre in Germania nel 2004  è stato emesso il primo Sukuk europeo dal valore di 100 milioni di euro, su iniziativa del Land della Sassonia-Anhalt.

 

 

Perché la finanza islamica non attecchisce (ancora) in Italia

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