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La risposta del G20 al Califfato? Rendere più difficile l’accesso a Internet, controllare i conti dei gruppi terroristici, sanzioni contro i Paesi che finanziano il terrorismo (chi, l’Arabia Saudita, gli sceicchi del Golfo, l’Iran già sanzionato abbondantemente?), coordinamento dell’intelligence, controllo dei foreing fighter. Sarebbe questo il fronte comune? Parole, parole, parole.

Speriamo che siano solo propaganda per coprire scelte concrete. Ma c’è da dubitarne. Un punto della bozza di comunicato finale mette le mani avanti: il terrorismo non va associato a nessuna religione, nazionalità, civiltà, gruppo etnico. No, gli attentatori di Parigi erano apolidi, atei o indifferenti, cittadini dell’altro mondo, magari marziani.

E che dire del “nuovo asse” tra Obama e Putin? Ma quale asse? L’incontro faccia a faccia (con interpreti) non ha prodotto nessun vero avvicinamento né sull’assetto della Siria dopo Assad (considerato ormai da tutti un cane morto), né sull’Ucraina (per Mosca uno Stato cuscinetto fondamentale per la propria sicurezza, quindi a sovranità limitata). Lo hanno ammesso gli stessi russi, i più interessati a rientrare nel grande gioco.

“Un accordo con l’Occidente è impossibile, perché l’Occidente non esiste, sono solo una serie di Paesi divisi tra loro”, ha sentenziato il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov a margine del G20, smentendo tutte le letture all’acqua di rose dei giornali italiani che hanno abbracciato (quasi tutti) la “narrazione” putiniana.

I cacciabombardieri e le forze speciali intervenute in Siria non hanno prodotto finora nessun cambiamento della situazione sul campo. Probabilmente sono come i bersaglieri di La Marmora in Crimea, servono a sedere al tavolo dei grandi nella futura spartizione. Per ora, il Califfo e i suoi accoliti si stanno facendo un mucchio di risate e preparano la nuova fase di questa guerra condotta ormai fuori dagli originari confini geografici.

La strage di venerdì 13 rappresenta, infatti, un salto di qualità. Un anno fa il Daesh, come lo chiamano gli arabi, aveva raggiunto il suo punto massimo di estensione tra la Siria e il nord Iraq. Poi sono cominciati gli attacchi aerei degli Stati Uniti e della Francia e i combattimenti dei curdi, degli sciiti iracheni e dei pasdaran iraniani. Tutti insieme sono riusciti a contenere l’espansione. E questo ha spinto il Califfo a esportare la guerra. Lo ha fatto stringendo un rapporto più stretto con al Qaida e le sue cellule dormienti e soprattutto prendendo a prestito la sua strategia del terrore. L’attacco a Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso è stato con tutta probabilità l’ultimo ululato dei lupi solitari, adesso è cominciata una nuova fase coordinata strategicamente dal centro.

Di questo passaggio extraterritoriale fa parte il Sinai (l’aereo russo abbattuto è il segno di un nuovo potere di fuoco) e fa parte il consolidarsi in Libia, o meglio in Tripolitania, dei gruppi che trovano nel Califfato il nuovo punto di riferimento.

L’Occidente è rimasto spiazzato, ancora una volta. Gli eroici combattenti per la libertà da Assad si sono rivelati una bufala. Obama insiste nel rifiutare ogni coinvolgimento sul terreno. “Non crediamo che il dispiegamento di truppe americane sia la risposta al problema”, ha dichiarato Benjamin Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale, ai cronisti del G20. Ma chi vorrebbe mettere i propri stivali nella sabbia? I tedeschi si sono tirati fuori già da anni, gli italiani anche, gli inglesi stanno a guardare. E molti sono persino restii a dire chiaramente chi è il nemico, come ha invitato invece a fare con chiarezza Roger Cohen sul New York Times: non un generico terrorismo senza aggettivi, ma l’Isis, il suo progetto di uno stato teocratico, islamico, dispotico, da esportare in tutto il Medio Oriente e da paracadutare tra le masse musulmane in Europa.

Le divisioni tra le grandi potenze e tra i principali Paesi islamici, cioè Arabia Saudita e Iran, rendono il quadro ancor più complicato. Il presidente iraniano Rohani ha detto che fermare il terrorismo, e in particolare l’Isis, è una priorità. Ma non vuole rinunciare a sostenere Assad e Hezbollah. Il re saudita Salman a sua volta aspetta che una Siria disgregata gli cada in mano come una mela matura e consenta di creare uno stato cuscinetto per  bloccare le mire degli ayatollah. “Senza costringere Riad e Teheran ad abbassare il livello dello scontro, la guerra che insanguina il Levante non avrà fine e l’Isis continuerà a fare proseliti”, ha scritto Vittorio Emanuele Parsi sul Sole-24 Ore.

Esiste naturalmente un fronte diplomatico che consiste nel cercare di coinvolgere tutti i soggetti interessati, interni all’area ed esterni, l’idea di una Westfalia del Medio Oriente. Ma quel patto di pace fu siglato nel 1648 dopo trent’anni di ferro e di fuco. Speriamo che non ci voglia tanto pure nel Levante. In ogni caso, bisogna prima mettere fine alla guerra di religione che si combatte nel mondo musulmano e a quella che l’islamismo radicale conduce contro l’Occidente. La grande tregua perseguita da Obama non sembra, dunque, a portata di mano.

E la Francia, verrà lasciata sola? François Hollande ha detto che la risposta sarà spietata. Non intendeva, naturalmente, solo la rappresaglia aerea scattata l’altro ieri. Troppo poco. Chiederà il ricorso all’articolo 5 della Nato che obbliga alla solidarietà armata di tutti i membri dell’alleanza (compresi i turchi che finora hanno mestato nel torbido del Califfato)? A quel punto, esattamente come accadde dopo l’11 settembre, la Nato dovrà preparare un vero piano d’intervento militare stile Afghanistan. Tutto è ancora fumoso, in fondo sono trascorsi solo pochi giorni, ma “il tempo stringe”, sottolinea Cohen, e il tempo gioca a favore del Califfo.

Stefano Cingolani

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