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La Farnesina ha subito smentito, ma l’accusa a tre navi italiane di aver sconfinato ieri in acque territoriali libiche segnala come, nell’ex regno di Muammar Gheddafi, il caos aumenti man mano che ci si avvicini a un accordo per un governo di unità nazionale. E come, per alcuni analisti, non sia difficile scorgere in questo risiko precise responsabilità, come quelle dell’uomo forte di Tobruk, il generale Khalifa Haftar.

LE CRITICHE A LEÓN

L’inviato speciale dell’Onu nel Paese, Bernardino León, cerca ancora un equilibrio che renda accettabile, per entrambe le fazioni, la firma di una bozza d’intesa (proprio oggi e domani l’assise riconosciuta a livello internazionale dovrà esprimersi nuovamente sul documento).

IL FATTORE HAFTAR

“Leon – e con lui la comunità internazionale – spera in un via libera: se così fosse”, scrive Antonella Rampino sulla Stampa, “per Tripoli firmerà solo quella parte del Consiglio che è favorevole. Se così fosse, equivarrebbe al via libera al peace-enforcing internazionale a guida italiana. A Tobruk, esattamente come a Tripoli, c’è chi comunque non è d’accordo”.
Tra i sospettati, prosegue il giornale diretto da Mario Calabresi, “ci potrebbe essere il generale Haftar, l’uomo ancora forte di Tobruk e che conduce in Libia le operazioni militari di lotta all’Isis, che nonostante nell’ultimo miglio di trattativa potrebbe esser rassicurato dalla presenza di alcune personalità a lui vicine nel nuovo governo di solidarietà nazionale, vedrà comunque il proprio ruolo ridimensionato: la bozza Leon prevede l’uscita di scena di tutti i vertici militari vigenti”.

L’ITALIA NEL MIRINO

In questo gioco di provocazioni, l’Italia è entrata ormai nel mirino di chi vuole sabotare un’intesa, con sgradevoli conseguenze. Il corrispondente di Associated Press in Libia, Rami Musa, ha twittato ieri che, secondo fonti della Guardia costiera libica, le navi incriminate non sarebbero state italiane, bensì libanesi e dirette in Tunisia con un equipaggio siriano a bordo. Nonostante ciò, dopo la diffusione della storia sulle responsabilità della Marina Militare italiana, il cimitero cattolico italiano di Tripoli “Hammangi” è stato di nuovo devastato in segno di rappresaglia. Non è la prima volta che accade qualcosa di simile e che a farne le spese è la Penisola. Il 25 settembre scorso, furono il governo e la stampa di Tripoli a puntare il dito contro presunte forze speciali italiane accusate di aver attentato alla vita di un boss degli scafisti, Salah Maskhout. Mentre nel settembre 2014, alcuni raid nel Paese, poi attribuiti a Egitto ed Emirati arabi uniti, furono addossati all’Aeronautica Militare italiana. Un’accusa che allora mise in pericolo i nostri diplomatici in Libia. Ma perché proprio Roma?

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ROMA

“Non siamo i soli a subire questo genere di pressioni, ma l’Italia ha da sempre un ruolo in Libia a favore del dialogo ed è senza dubbio l’interlocutore internazionale più importante in questo processo”, rimarca Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra.

PROPAGANDA E PETROLIO

Per Toaldo, il legame con Haftar non deve stupire troppo. “Nell’esercito del generale ci sono molti ex ufficiali di Gheddafi. E non è un mistero che il rais usasse la propaganda anti italiana in modo strumentale. Semplicemente utilizzano strumenti che conoscono bene e che sono principalmente destinati a destabilizzare il fronte interno”.
La falsa notizia, secondo l’esperto, può essere facilmente coniugata con i negoziati in corso, ma anche con alcuni movimenti riguardanti le risorse energetiche del Paese, e offre uno spaccato degli obiettivi di chi mira a far saltare l’intesa.
“È sempre di ieri la notizia che la National Oil Company di Benghasi, la compagnia parallela creata da Tobruk, abbia venduto a uno sconosciuto committente un primo carico di petrolio. Questo rafforza l’idea che, sottotraccia e non solo, ci sia chi lavora a una divisione di fatto della Libia”.

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