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Giovedì scorso, durante un’intervista di un telegiornale di Al Arabya, il portavoce del ministero della Difesa saudita Ahmed al Asiri, ha dichiarato che il suo Paese è pronto per inviare un contingente militare terrestre per combattere lo Stato islamico in Siria. Il Guardian riporta che fonti interne a Riad, hanno rivelato che ci sarebbero migliaia di forze speciali pronte ad intervenire, forse in coordinamento con la Turchia.

Si tratta di una dichiarazione che potrebbe essere discussa già in un vertice Nato in programma la prossima settimana a Bruxelles, e che si allineerebbe alla richiesta americana di fare di più nella lotta allo Stato islamico; i rapporti Washington-Riad sono ai minimi storici, pesano il petrolio e la riqualificazione iraniana, ma i sauditi hanno necessità di muoversi contro il Califfato, che rappresenta un nemico impellente anche per il Regno. I rischi sono evidenti: l’Arabia Saudita è già impegnata in una guerra fangosa e senza soluzioni apparenti in Yemen (alcuni osservatori la definiscono “Il Vietnam saudita”) contro i rivoluzionari sciiti Houthi, e soprattutto Riad e Ankara sono i due grossi sponsor dietro alle lotte armate dei ribelli siriani e hanno da sempre chiaro in testa l’obiettivo di rovesciare il regime di Damasco. Il governo siriano difficilmente accetterebbe la presenza di forze saudite (e turche) sul proprio territorio, e d’altronde è impossibile pensare che questi soldati non rappresentino un ulteriore tentativo di portare avanti un’agenda personale per Riad (e Ankara), perché i militari che Raid travestirebbe da forze speciali “anti-Isis”, potrebbero facilmente finire per portare sostegno ai ribelli nelle lotta contro il regime, piuttosto che concentrarsi sui baghdadisti.

L’annuncio si appaia alla dichiarazione del portavoce del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov, il quale ha detto che Mosca “ha fondati motivi per sospettare una preparazione intensiva della Turchia per un’invasione militare” in Siria. Ma quello che esce dai russi verso i turchi e viceversa, deve essere sempre pesato dalla propaganda, visto l’altissimo livello di tensione tra i due Paesi dopo l’abbattimento da parte dei Ankara del Sukhoi russo.

RUSSIA STYLE

L’avanzata delle truppe governative su Aleppo ha ufficialmente fatto saltare il tavolo delle trattative (la giornalista Anne Barnard che si trovava a Ginevra ha fatto un racconto sul New York Times di come alcuni capi militari dei ribelli siriani presenti discretamente ai negoziati hanno vissuto le notizie che arrivano dalla Siria prima di lasciare il tavolo), ed è una circostanza che si porta immediatamente dietro proposte come quella di Riad.

Damasco negli ultimi giorni ha ottenuto uno dei principali successi militari dall’inizio dell’intera guerra: ha rotto l’assedio a Zahra e Nubul, grazie a una martellante azione di bombardamento da parte dei jet russi, con oltre 80 sortite giornaliere. Le due località rappresentano una sorta di enclave governativa (sciita) in mezzo ad un’area che era in mano ai ribelli dal  2012, una zona che ha un forte valore strategico perché taglia le linee di rifornimento diretto che portavano rinforzi ai ribelli dal confine turco. Liz Sly sul Washington Post scrive che così i ribelli hanno perso Aleppo (che è la seconda più grande città siriana) e “forse l’intera guerra”. Per quanto l’attuale impegno russo possa protrarsi non è chiaro, probabile che si sia al massimo livello dello sforzo con i mezzi dispiegati, ma nell’immediato l’azione di Mosca ha un valore militare decisivo (il ministero della Difesa russo ha detto giovedì che dal primo febbraio sono stati colpiti dai raid aerei 875 “oggetti terroristici” nelle province di Deir Ezzor, Aleppo, Latakia, Homs e Hama).

IL VUOTO DEI NEGOZIATI

Quei negoziati ufficialmente saltati per le mosse sul campo, però erano già partiti in modo sghembo. La principale forza combattente e i suoi rappresentati politici, l’Ypg e i curdi siriani, gli unici che ottengono sostegno unanime da russi e americani, non erano stati invitati: si tratta di un favore fatto alla Turchia da Washington (che secondo alcuni analisti sta cominciando ad allontanarsi dai curdi, che uscendo dalla sfera d’influenza americana si dirigono ovviamente verso Mosca). Ankara è nemica dei curdi, considera la forza combattente Ypg un’entità terroristica alla stregua di Pkk (curdi turchi) e Isis. Vuole tenere il Rojava, lo stato autoproclamato dai curdi nel nord siriano, lontano dai talks, perché sa che le rivendicazioni dell’Ypg potrebbero essere ulteriore benzina sul fuoco interno e sulle mire separatiste curdo-turche.

Non bastasse questo, nemmeno i ribelli arabo-islamici erano ben rappresentanti a Ginevra: inizialmente non volevano andare, poi Riad ha compattato una delegazione formale, che però non aveva nessun mandato decisionale. La principale delle divisioni tra Turchia, Arabia Saudita e ribelli da un lato e regime e sostenitori russi e iraniani dall’altro, è ancora il futuro del presidente Bashar el Assad: un’uscita di scena è altamente improbabile, tanto quanto la riconquista dell’intero paese; per ora i russi stanno lavorando per portare il regime a sedersi ai tavoli che conteranno con il maggior territorio possibile da rivendicare sotto il proprio controllo. Nel mezzo, gli Stati Uniti, che hanno mollato nella prammatica delle cose il motto “must go” su Assad, anche se non vogliono consegnarlo alla storia come vincitore.

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato insieme al suo omologo americano John Kerry di “essere rammaricato” per la sospensione temporanea, sapendo comunque che questa era l’unico esito possibile per i colloqui appena iniziati, perché senza un coordinamento collaborativo tra Mosca e Washington (e relativi proxy) difficile che qualcosa si smuova, sia sul fronte crisi siriana sia su quello “anti-Isis”.

Il delegato Onu Staffan de Mistura ha annunciato che i negoziati riprenderanno intorno al 25 febbraio; si dice intorno perché con i talks siriani è sempre stato così, non si sa mai bene la data, tra inviti all’ultimo minuto, delegazioni cancellate, step importanti sul campo (anche questi ultimi sono saltati di qualche giorno rispetto al giorno di inizio fissato mesi fa).

L’EMERGENZA UMANITARIA

Intanto l’emergenza umanitaria in Siria non si ferma, e si inizia a parlare della “più grande crisi dopo la Seconda guerra mondiale”. L’Europa paga la Turchia per tenere la guerra e i suoi mali lontani dall’Unione, ma il fronte si avvicina inesorabile dal sud del Mediterraneo, con la Libia. Il premier turco Ahmet Davutoglu ha dichiarato che circa 70 mila persone stanno avvicinandosi ai propri confini per sfuggire ai pesanti combattimenti nella zona di Aleppo (dove i bombardamenti hanno fatto anche vittime civili). Le strutture turche sono sovraccariche, così come quelle libanesi e giordane, mentre la guerra continua: gira in questi giorni Channel 4 ha prodotto un video girato attraverso la telecamera di un drone russo che ha sorvolato la città di Homs (Siria centro-occidentale, vicino al confine con il Libano). Le immagini mostrano una devastazione apocalittica, immagini che spiegano perché la gente fugge dal paese.

(Foto: screenshot del video di Channel 4)

Perché la crisi in Siria è ancora senza soluzione

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