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Sabato 30 gennaio, intorno alla 9 di sera, quattro persone sono state fermate davanti al monastero ortodosso di Visoki Decani, in Kosovo. L’azione congiunta della ‪Kosovo Police (KP) e della ‪‎KFOR‬ (la forza di peacekeeping Nato che si trova sul posto dalla fine della guerra del 1999) ha bloccato una Volkswagen Golf bianca targata Uroševac (Ferizaj) davanti al cancello principale del monastero, e dopo il controllo dei documenti s’è scoperto che i quattro uomini portavano con sé una AK47 Kalashnikov, una pistola e diverse munizioni. Tra i contenuti del veicolo, diversi testi di predicazione islamica radicale.

Secondo le notizie pubblicate dai media locali, i quattro uomini sarebbero kossovari provenienti da diverse parti del paese: Gnjilane, Uroševac, Prizren e Djakovic.

Il luogo non è nuovo ad episodi legati al terrorismo, anche islamico. Nell’ottobre del 2014 le mura dell’edificio sono state ricoperte con scritte inneggianti allo Stato islamico (quattro mesi prima altri graffiti, poi cancellati, riguardavano messaggi di propaganda di altri gruppi terroristici come l’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, e dell’ANA, l’Albanian National Army). Il monastero ha subito quattro attacchi armati dalla fine della guerra ma per uno solo di questi è stato trovato un colpevole (un albanese del Kosovo) e condannato a 2 anni e mezzo di reclusione.

L’abate di Visoki Decani Sava Janjic ha dichiarato che questo episodio rappresenta un’ulteriore conferma al fatto che la presenza delle truppe KFOR, che nell’area sono composte da un contingente italiano, è ancora nevralgica per la sicurezza del monastero, che è incluso nella lista del patrimonio mondiale Unesco. Della stessa opinione è Fabio Franceschini, presidente dell’associazione Love Onlus che si occupa della tutela delle minoranze in Kosovo (e ultimamente anche in Dalmazia). Contattato da Formiche.net, Franceschini ricorda che “il territorio di Decani ha innanzitutto un valore religioso storico: il monastero fu costruito nel 1300 con l’intento di rappresentare un punto di unione tra la cultura occidentale e quella bizantina, anche per questo è osteggiato dagli estremisti: un punto di unione in un momento in cui si vuole dividere”. Aggiunge Franceschini: “Decani è anche uno dei simboli più importanti della cultura serba, vi si conserva la Croce di Nestore, il primo documento in cirillico serbo, praticamente l’equivalente culturale che in Italia avrebbe un manoscritto di Dante”.  Il presidente della onlus italiana, ricorda che davanti alle tensioni che interessano l’area, i checkpoint a Decani sono aumentati da 4 a 7 nell’ultimo anno, uno interno al monastero (è lì che sarebbe stato sventato il possibile attacco) e sono un elemento vitale per l’esistenza della minoranza locale.

Come testimoniato da un reportage del Consiglio Nazionale delle Ricerche del luglio 2013, la situazione locale è molto tesa, costituita da ruggini ataviche difficili da scalfire: “Decani è un enclave ortodossa al centro di una comunità islamica che ultimamente ha visto instaurarsi dinamiche interne legate alle istanze radicali dello Stato islamico”.

In Kosovo lo scorso anno sono state arrestate circa 40 persone, tra cui alcuni imam, con l’accusa di essere facilitatori o potenziali foreign fighters dell’Isis. I dati del governo di Pristina parlano di circa 300 combattenti partiti per combattere il jihad in Siria: numero che fa del Kosovo il paese con il maggior rapporto di “foreign fighters pro capite”.

Tutte le ultime moschee costruite in Kosovo sono state finanziate o sponsorizzate dall’Arabia Saudita, e si iniziano a vedere anche le prime scuole coraniche wahhabite, molto rigide e integraliste, anche a questo si legherebbe parte della radicalizzazione. Due degli uomini fermati sabato, sulla base dell’aspetto estetico, sarebbero stati individuati dai locali come wahhabiti.

Antonio Evangelista, ex comandante della missione Unmik in Kosovo e tra i massimi esperti europei di antiterrorismo nel suo libro Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa (Editori Riuniti, 2009), ha spiegato che gli orfani delle guerre balcaniche rischiano di finire tra le maglie di una rete di predicatori wahabiti finanziati da organizzazioni pseudo-umanitarie di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar e Turchia, che si muovevano in Kosovo instillando tra i giovani le istanze radicali islamiche, attraverso propaganda anche indirizzate al jihad.

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