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Ibrahim Abdel Qader e Fares Hamma sono due degli attivisti “anti-Isis” che animavano il profilo Twitter @Raqqa_SL associato al sito internet RBSS, che sta per “Raqqa is Being Slaughtered Silently”: si tratta di un gruppo di insider che raccontano e denunciano gli abusi della vita sotto lo Stato islamico. Venerdì mattina della scorsa settimana sono stati trovati uccisi in un appartamento di Şanlıurfa, in Turchia, a pochi chilometri dal confine siriano. I loro corpi (20 anni il primo, 23 il secondo) erano stati trucidati a colpi di coltello e decapitati.

Ufficialmente le autorità turche non hanno commentato il duplice assassinio, ma l’Isis ha pubblicato un video (di non elevata qualità come d’abitudine) domenica: nel filmato del Califfato viene mostrato uno dei due ragazzi con la gola tagliata. La voce che accompagna le immagini dichiara di aver effettuato gli assassini «in modo che tutti gli apostati sappiano che saranno massacrati silenziosamente», con un ironico richiamo al nome del gruppo attivista stesso, e continua «non sarete al sicuro dal coltello dello Stato Islamico. La nostra mano vi raggiungerà ovunque vi troviate e vi taglierà il collo, se Dio vorrà».

Il gruppo di attivisti di Raqqa è stato definito dalla CNN «un importante bilanciamento diretto alla propaganda del Califfo», e l’anno scorso ha ricevuto un premio giornalistico. Il più conosciuto dei due ragazzi uccisi, al Qader, lo scorso anno è stato anche intervistato da NBC News: in quell’occasione aveva raccontato di essere stato già catturato e torturato per settimane dall’IS a Raqqa, ma poi era stato rilasciato. A quel punto era riuscito a fuggire prima che i baghdadisti prendessero il controllo dell’intera città: si era rifugiato in Turchia, ma sapeva che la sua vita era in pericolo, perché sulla sua testa il Califfo aveva messo una taglia. Hamadi invece sembra fosse un giornalista di Eye on Homeland, media partecipativo siriano, almeno secondo le ricostruzioni del Committee to Protect Journalists, organizzazione no-profit newyorchese che si occupa di monitorare la libertà di espressione e difende i diritti dei giornalisti in Paesi difficili e con governi autoritari. «Chiediamo un’indagine immediata e approfondita da parte delle autorità turche che porti i colpevoli di questi omicidi efferati davanti alla giustizia» ha detto Nina Ognianova, responsabile di Europa e Asia Centrale di CPJ.

I due giovani non sono i primi tra coloro che denunciano le atrocità del Califfato ad essere uccisi: in luglio hanno ucciso Bashir al Saado e Faysal al Habib. Un mese fa è toccato a Rakan Awad, Atallah al Khalaf e Mohamed al Mousa, quest’ultimo padre di uno degli animatori del sito. Ibrahim e Fares però sono i primi a morire non in Siria: per altro gli omicidi sono avvenuti in Turchia, un aspetto che desta perplessità già di per sé. “Come mai due giovani che tutti sapevano inseriti in una lista nera dello Stato islamico sono stati uccisi senza che nessuno si occupasse di difenderli?” si chiedono in molti tra gli ambienti vicini agli attivisti: è questo il punto, come mai le autorità turche non hanno garantito la sicurezza ai due ragazzi fuggiti dalla Siria?

Il fratello di Ibrahim al Qader, Ahmed, ha concesso un’intervista esclusiva alla NBC, spiegando quello che sembra sia successo (almeno secondo lui). Ahmed al Qader, che fa parte anche lui del gruppo di attivisti, ha raccontato alla rete televisiva americana che tutto è iniziato un mese e mezzo fa, con l’arrivo in Turchia dalla Siria di un un uomo di nazionalità turca, nome Tlas Surur il suo nome, che si era presentato ad Ibrahim come un pentito e disertore dal Califfato e che aveva trovato il modo di incontrare gli attivisti a Urfa (o Şanlıurfa): diceva che li avrebbe aiutati. Giorni di frequentazione che hanno portato ad un’amicizia. Ma in realtà Surur era venuto per uccidere Ibrahim, almeno secondo quanto detto dal fratello della vittima alla NBC. C’erano i soldi di una taglia da riscuotere, oppure era il fuoco del radicalismo fomentato appena al di là del confine a far muovere Surur?

A quanto pare la tesi regge anche per la polizia: tra i funzionari ha raccolto informazioni la stessa NBC; si pensa a Surur come assassino, anche se nessuna pista è stata dichiarata. Alcuni attivisti siriani in Turchia hanno commentato i fatti con il Financial Times: «Io non ho paura», ha detto Hussam al-Marie, un altro di coloro che documentano le brutalità dell’Isis (e pure del governo turco). «Le minacce sono sempre esistite». «Sì, abbiamo paura ma non siamo preoccupati per la nostra vita», ha detto al-Jilani Sarmad, uno dei membri fondatori di @Raqqa_SL. «Abbiamo paura dei cambiamenti demografici: abbiamo paura che Isis continuerà [ad esistere] in Siria. Abbiamo paura delle barrel bomb di Assad. Questa paura è ciò che ci rende più forti e ci mantiene andare avanti con il nostro lavoro». 

Sono quegli stessi attivisti a denunciare il fatto che Surur, il presunto assassino, è tornato di nuovo in Siria, attraverso il permeabile confine turco, nonostante il sospetto del duplice omicidio. Ma ci sono aspetti anche più lugubri dietro a questa storia, perché alcuni osservatori credono che possa essere stata coinvolta anche la mafia turca, che costruendo contatti con i membri locali affiliati allo Stato islamico, sta cercando di ampliare i propri link di guadagni. In questo, Surur potrebbe anche essere stato colui che ha segnalato la posizione dei ragazzi ai sicari.

Ancora una volta in Turchia le maglie larghe della sicurezza permettono agli uomini dell’IS (o i filo-IS) di muoversi indisturbati e portare a termine i propri piani dentro e fuori tra Turchia e Siria. Quello dei due attivisti di @Raqqa_SL è per molti aspetti una vicenda analoga a quella degli attentati che sempre in Turchia hanno colpito i curdi in tre episodi da giugno: quello turco è diventato il territorio dove lo Stato islamico consuma (verrebbe da dire: comodamente) le proprie vendette dirette.

 (Nella foto, Fares Hammadi, a sinistra, e Atlas Surur)

 

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