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In mattinata (ora di Washington), il presidente degli Stati Uniti Barack Obama riceverà alla Casa Bianca il premier israeliano Benjamin Netanyahu: l’incontro tra i due leader alleati è il primo dopo tredici mesi di “ferri corti”, causati prevalentemente dalla chiusura, fortemente voluta da Obama, dell’accordo nucleare con l’Iran; ma non solo.

UN RAPPORTO IN CRISI

Tra i due leader c’è scarsa chimica personale da sempre, questo è noto: ma è un aspetto relativo se si devono trattare questioni di primaria importanza. Sebbene anche su queste le distanze di visioni tra i due sono ampie: durante il primo mandato c’era la questione della pace israelo-palestinese, su cui pesava la politica dei settlement spinta da Netanyahu, e che invece Obama avrebbe voluto bloccata; ora c’è l’Iran di mezzo. La vicenda che lega insieme incompatibilità personale e distanza di visioni politiche, è proprio legata al deal con Teheran. In piena campagna di lobbyng contro l’accordo con gli ayatollah, Netanyahu andò addirittura a parlare al Congresso americano, riunito in seduta comune, invitato dai Repubblicani: in quell’occasione Obama non volle incontrarlo, un gelo diplomatico che spiega molto degli attuali rapporti USA-Israele. Era inizio marzo, cioè solo otto mesi fa, poi le cose se possibile sono pure peggiorate perché l’accordo alla fine s’è chiuso tra le denunce israeliane: per questo, spiega alla Reuters David Makovsky analista del Washington Institute for Near East Policy, quello di oggi non può essere un «reset» del rapporto bilaterale. C’è un altro di quei dettagli che spiega l’analisi di Makovsky e i rapporti in generale: ha fatto molto clamore la possibilità della nomina di Ron Baratz a portavoce del primo ministro, di cui Netanyahu ha detto che si occuperà al ritorno del viaggio americano. Baratz, già consigliere di Bibi, in passato ha accusato Obama di antisemitismo e ha definito il segretario di Stato John Kerry «un uomo col cervello di un dodicenne».

INERZIA E PICCOLI AVVICINAMENTI

Un funzionario della Casa Bianca sentito dalla Reuters ha ammesso che il mandato presidenziale si chiuderà senza che la “soluzione a due Stati” della questione israelo-palestinese tornerà in discussione: «Questa è la prima volta dai tempi dell’Amministrazione Clinton che la prospettiva di un negoziato non è sul tavolo» ha detto quel funzionario. La bussola mediorientale ormai è magnetizzata dal conflitto siriano e dai suoi conseguenti hotspots (Isis, Iran, Russia, Turchia, terrorismo globale, immigrazione) e Obama sembra essersi convinto che finirà l’incarico da presidente senza aver trovato la pace a Gerusalemme, nonostante gli intensi sforzi degli anni passati; mentre Netanyahu spera di trovare dopo il 2016 qualcuno più ricettivo alle proprie istanze.

Intanto, la questione è congelata, tra timide aperture che il premier israeliano ha concesso a Washington: per esempio il blocco della costruzione nei Territori, che Obama considerava la condicio sine qua non per la pace, e «l’accordo milionario con la compagnia americana Noble Energy per lo sfruttamento del giacimento di gas Leviathan, a poche miglia dalle spiagge di Haifa», come ricorda Mattia Ferraresi sul Foglio.

GLI INTERESSI ECONOMICO-MILITARI 

Resta che il motivo dell’incontro non è un chiarimento per favorire una normalizzazione dei rapporti, ma è soltanto legato al pragmatismo di interessi, sia economici che per certi aspetti strategici. Netanyahu tratterà di persona i punti chiave per un rinnovamento dell’accordo militare tra i due Paesi: non si chiuderanno contratti, ma il premier israeliano ha intenzione di uscire da Pennsylvanie Ave con in mano un protocollo di intenti, che sarà poi sviluppato dalle rispettive diplomazie, che alzerà il tetto degli “aiuti” militari americani a 5 miliardi l’anno. Sul tavolo c’è l’aumento del numero di F-35 (cinquanta per ora) che l’America venderà ad Israele, unico Paese mediorientale a cui verrà concesso l’utilizzo dei nuovi velivoli della Lockheed-Martin: molto probabilmente si discuterà anche dei V-22 Osprey, aero-elicotteri da trasporto truppe, di cui Israele sta trattando l’acquisto da diversi anni.

ISRAELE ACCERCHIATA

Gerusalemme avverte la necessità di armarsi ancora di più, perché si sente circondato da minacce sia interne che esterne. Appena al di là dei confini, si combatte il conflitto siriano, un campo di battaglia pieno di iraniani e milizie sciite asservite a Teheran che vedono Israele come nemico esistenziale; là i pasdaran, oltre che difendere Damasco, stanno, secondo continue informazioni di intelligence israeliana, fornendo armamenti tecnologici ad Hezbollah, il gruppo militare libanese che tutti credono pronto a una nuova guerra contro Israele. Il pericolo interno è invece connesso all’infiltrazione di queste e altre spurie del conflitto siriano, nei datati problemi con i gruppi combattenti palestinesi. La cosiddetta “Intifada dei coltelli” ha alzato il livello dell’emergenza per la Sicurezza nazionale (domenica, ancora, sei israeliani, in tre separati attacchi nel West Bank, sono stati feriti, mentre un attentatore è stato ucciso). E ai gruppi di Gaza e Cisgiordania si aggiunge la predicazione che arriva propria dal territorio califfale siro-iracheno: “uccideteli tutti”, “macellateli”, proclamano i leader baghdadisti in filmati in cui invitano i palestinesi ad abbandonare le organizzazioni politiche locali e a virare verso lo Stato islamico, tralasciando il nazionalismo e pensando all’entità sovranazionale del Califfato.

Il capo della Wilayah del Sinai dello Stato islamico, Abu Osama al Masri, il giorno successivo del disastro aereo dell’Airbus russo precipitato sulla penisola egiziana, “andava online” con un video in cui, mentre lui rivendicava l’attacco a Sharm, il suo gruppo invitava i musulmani che vivono in Israele a continuare gli attacchi con i coltelli.

LE RAGIONI STRATEGICHE AMERICANE

Allo stesso tempo, anche gli Stati Uniti sanno che questi aiuti militari e quelle relazioni con Israele devono essere tenute in piedi per ragioni strategiche: sotto questo punto di vista va letto il primo viaggio del capo delle Forze Armate americane Joseph Dunford, che ha visitato Israele a metà ottobre come primo viaggio all’estero, fresco di incarico. È un tentativo di ricucire, col pragmatismo degli accordi militari e per quel che è possibile, i rapporti (al resto penseranno i successori): sempre nell’ottica, pragmatica anche questa, dell’importanza strategica che Gerusalemme ha per gli Stati Uniti nell’area.

Un esempio arriva proprio dal caso del volo KGL9268 russo precipitato sul Sinai, un altro di quei dettagli che spiegano le situazioni. Sembra infatti che la sicurezza con cui l’Amministrazione americana tratta il caso, esponendosi fino a definirsi sicura «al 90%» che si sia trattato di una bomba a bordo, arrivi da intercettazioni telefoniche fornite ai funzionari statunitensi (e britannici) dall’intelligence israeliana, come ha rivelato la CNN. Israele ha particolare interesse all’area del Sinai, perché ritiene che attraverso i tunnel che sono stati scavati nella zona di confine, arrivino a Gaza molte delle forniture militari di cui dispone Hamas. Gli israeliani hanno collaborato con le operazioni militari di anti-terrorismo disposte dal governo egiziano nella zona nordorientale della penisola.

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