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Era il 1990 quando  lo scienziato del MiT (Massachusetts Istitute Of Tecnology) John Romkey creò un tostapane che si poteva avviare via internet. Qualche anno dopo,  nel laboratorio di informatica dell’Università di Cambridge, Quentin Stafford-Fraser e Paul Jardetzky elaborarono una webcam per monitorare il livello del caffè nel bricco: era l’inizio di quello che sarebbe poi passato alla storia come  “Internet of things” (IoT), internet delle cose, espressione che qualcuno attribuisce all’imprenditore britannico Kevin Ashton, che la usò nel “lontano” 1999.

Oggi sul mercato sono presenti 18.2 miliardi di oggetti e macchine collegati ad internet ( per il 2025 se ne stimano oltre 45 miliardi); oggetti e macchine che trasmettono dati. E’ così che prende vita un universo parallelo di ombre digitali, che trasmette informazioni utilizzando le “tracce digitali” che lasciamo, spesso inconsapevolmente, al nostro passaggio ogni qual volta usiamo il bancomat, passiamo sotto una telecamera, utilizziamo smartphone e pc, aggiorniamo il nostro stato su un social network, guidiamo la nostra automobile, impieghiamo la domotica per accendere e spegnere gli elettrodomestici. Anche questi ultimi, da oggetti simbolo della rivoluzione dei consumi, legati indissolubilmente nell’immaginario delle famiglie italiane agli anni del boom, si trasformeranno da macchine “silenti” in macchine “parlanti”,

Questa è la  “pelle elettronica” di cui parlava  il sociologo Neil Gross. Una tecnologia figlia dell’epoca dei Big Data, cioè di grandi moli di dati eterogenee, fino a qualche anno fa del tutto o parzialmente inutilizzabili, che ora è invece a nostra disposizione e promette di diventare in breve tempo una risorsa al pari delle materie prime.

Come nel sistema nervoso centrale, in prospettiva anche big data e Iot possono dar vita ad un sistema in cui tutte le terminazioni sono tra loro connesse. In questo senso, le banche dati oggi esistenti potranno essere integrate e divenire così la “materia prima” fondamentale  per lo sviluppo e la crescita di nuovi prodotti e servizi. Ma tutte queste risorse, proprio come il petrolio, per diventare energia realmente disponibile, hanno bisogno di essere “estratte” ed elaborate in tempi brevi. Per sfruttare al meglio le informazioni di cui disponiamo è necessario collegarle tra loro, perché è proprio la possibilità di strutturare i dati che fornisce nuova conoscenza. In molti ambiti dell’industria, della pubblica amministrazione, del commercio, dello sport, della sanità, Big data e Internet delle cose già lo stanno facendo, ma nei prossimi anni – con la progressione a velocità esponenziale tipica dell’evoluzione digitale scolpita dalla legge di Moore e la pervasività della rete – insieme a nuove tecnologie e nuovi materiali riplasmeranno il modo di vedere la realtà, di organizzare il lavoro e la società.

Il cambiamento interesserà, in parte già lo sta facendo, anche il manifatturiero. Industry4.0 è appunto l’applicazione dell’Iot alla produzione industriale. Su questo versante la Fim Cisl,  unico sindacato in Italia, sta lavorando da tempo (da ultimo, è di questi giorni la pubblicazione di #SindacatoFuturo in Industry 4.0 di Marco Bentivogli. Ciò perché un sindacato che guarda al futuro prossimo non può permettersi di trovarsi impreparato a quella che si annuncia come la “quarta rivoluzione industriale”, il paradigma attorno al quale sarà ripensato tutto il sistema produttivo, il lavoro nel suo complesso e dunque anche il  ruolo del lavoratore.

E’ evidente che una trasformazione di tale portata richiede un cambio di mentalità e cultura organizzativa da parte di un’organizzazione come il sindacato, che ambisce ad imprimere il marchio del lavoro organizzato anche su una  “rivoluzione” che, a tutta prima, sembra invece escluderlo dal suo orizzonte.

Di qui la necessità di un’applicazione consapevole in chiave organizzativa delle nuove tecnologie,  dei “big data”,  del “cloud” etc… Le istruzioni per l’uso, diciamo così, vanno però corredate da un’avvertenza: l’interesse per il cambiamento non va confuso né tanto meno rappresentato come un vezzo da fanatici del gadget tecnologico o un passatempo da futurologi. Le tecnologie, l’analisi algoritmica dei dati,  diventano per il sindacato tools fondamentali, insieme alle skills  necessarie a gestirli e ad umanizzarne l’applicazione pratica, per aprire una dimensione “nova” della rappresentanza del lavoro organizzato

Tutto questo, a breve,  potrebbe condurci su strade inesplorate. Oggi il sindacato possiede una capacità inespressa di analisi della propria base di rappresentanza,  del territorio e del mondo del lavoro. Eppure possiede in larga parte le informazioni che gli occorrono: sono quelle che trova nelle proprie “banche dati”,  una vera  e propria miniera che però –come tutte le miniere – ha bisogno di essere scavata in profondità per dare frutto.

Il sistema informatico usato dal sindacato per registrare iscritti e dirigenti, fornire servizi, comunicare – dalle pagine dei social network ai siti internet istituzionali – rappresenta una fonte di inestimabile valore. Peraltro, se guardiamo ad esempio a quanto avvenuto nella Cisl,  l’infrastrutturazione digitale della confederazione si è notevolmente irrobustita negli ultimi anni.

Tuttavia i big data non sono una semplice struttura  piatta rappresentabile in tabelle. Sono piuttosto dati strutturati con centinaia di relazioni diverse tra loro; per questo bisognerebbe  far dialogare le  banche dati,  anche con fonti esterne. Penso alle banche dati dei Fondi interprofessionali o pensionistici, ma anche a quelle delle università.

Da tutto ciò si evince che il prossimo futuro renderà inevitabile un rivolgimento culturale. E con esso il superamento delle gabbie ideologiche, strumenti sempre più arrugginiti ed inservibili per la lettura della realtà, benché alcuni continuino a considerarli idoli cui dedicare sacrifici, anche se più per consuetudine che per reale convinzione.  Sempre più invece il sindacato, o almeno la parte di esso che non intende finire fuori dalla storia, si farà guidare nella definizione delle sue politiche contrattuali e nella sua azione di rappresentanza dall’analisi dei dati. Non mi stupirei che in un futuro non lontano fosse un algoritmo a decidere e regolamentare un premio di produzione.

Per non farsi trovare impreparato da un futuro che batte ormai alla porta, il sindacato deve quindi serrare i tempi, appropriarsi delle nuove tecnologie ed imparare ad usarle. Qualcuno potrebbe obiettare che in uno scenario come quello che abbiamo sommariamente tratteggiato il fattore umano è destinato a divenire marginale. Credo sia esattamente il contrario: proprio per evitare che ciò avvenga il sindacato deve cominciare a padroneggiare queste tecnologie, solo in questo modo potrà dare dei dati a sua disposizione la giusta lettura.  Che solo l’intelligenza e la sensibilità umane – bene chiarirlo – sono in grado di dare.

La Fim Cisl vicentina insieme alla Cisl da qualche tempo sta pensando di dotarsi di un sistema software che gli permetta di far dialogare le banche dati della categoria e quelle dei servizi. L’obiettivo secondo il segretario generale della Fim Cisl Veneta Raffaele Consiglio è quello di  avere informazioni incrociate che, insieme,  permettano da una parte di fornire servizi sempre più efficienti e cuciti intorno alle esigenze della persona, dall’altra di elaborare politiche contrattuali modellate sulle esigenze dei lavoratori.

In passato l’evoluzione tecnologica ha sempre provocato cambiamenti profondi a livello economico e sociali. Il passaggio dalla terza rivoluzione industriale alla quarta, quella di internet delle cose, sarà con ogni probabilità ancor più repentino. Se è vero che il progresso della scienza non avviene in modo lineare, ma procede a salti, non è così temerario ipotizzare che il balzo indotto dall’Iot potrebbe scavare non un solco, bensì un baratro tra le generazioni.

Il potente rullo compressone del mercato (in altri termini, la schumpeteriana distruzione creatrice) farà il resto.  Tra qualche anno molti dei lavori che oggi conosciamo non esisteranno più, altri saranno creati. La sfida è quindi traghettare il lavoro organizzato dentro le nuove realtà. Senza nascondersi che oggi le grandi aziende tecnologiche come Google, Apple, Facebook, sono “union free”,  e che in molte delle imprese più avanzate il ruolo del sindacato è marginale. Una condizione che è sintomatica di un malessere sul quale dobbiamo riflettere. Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare di essere messi all’angolo. I big data possono rappresentare un alleato in questa sfida.

 

Big Data

Big data, la campana della rivoluzione digitale suona anche per il sindacato

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