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Nonostante la finale persa contro Carlos Alcaraz, l’ultimo Wimbledon ha segnato comunque un riscatto per Nole Djokovic. L‘ennesimo di una carriera di successi intervallati da rare ma intense crisi dalle quali si è sempre risollevato.

Il tifo-contro Djokovic

Oltre che per le gesta sportive, il torneo verrà ricordato per un episodio che ha visto protagonista Djokovic nel match contro Holger Rune. Nella dichiarazione a fine gara, ha redarguito quanti nel pubblico avevano rumoreggiato durante l’incontro per infastidirlo. Poco dopo, alla terza domanda sull’accaduto in un’intervista alla BBC, se ne è andato rimproverando il giornalista di fare polemica e disinteressarsi del tennis giocato. Per alcuni eccessiva, per altri giustificata, la protesta è stata comunque coraggiosa; una risposta irrituale al tifo-contro rivolto a Djokovic nei tornei. Un fenomeno in aumento, invece di scemare come accaduto ad altri.

È il sintomo della scarsa simpatia che Djokovic raccoglie presso il grande pubblico che lo considera un personaggio controverso, complice un mainstream che cerca il lato negativo nelle sue virtù sportive ed umane. E vede nella sua proverbiale competitività un’arrogante bulimia di vittorie; nella dedizione totale al tennis i segni di un fanatismo quasi patologico. La scarsa empatia dei media verso Djokovic rimanda a svariati pregiudizi che lo riguardano, al contempo sportivi, politici, culturali.

Terzo Incomodo vs G.O.A.T.

Uno dei più lampanti è la critica rivolta alla longevità professionistica del campione serbo, come se fosse una colpa di cui giustificarsi. Della vita agonistica di Roger Federer e Rafael Nadal si è parlato di quanto sarebbe durata tanto che (con la regia degli sponsor) si è fatto di tutto e di più pur di allungarla virtualmente. Della carriera di Djokovic si discute di quando dovrebbe finire. Si cercano i presagi di un viale del tramonto periodicamente evocato dai media, puntualmente rimandato dai risultati sul campo.

Di recente, nonostante i successi del 2023, è bastato un primo semestre del 2024 senza trofei perché nientemeno che The Guardian si chiedesse retoricamente se non fosse arrivato per Djokovic il momento di ritirarsi. È l’ennesima espressione di un malcelato fastidio che provoca una carriera che più si protrae e più proietta il serbo al vertice assoluto di un’era tennistica che il mainstream degli sponsor aveva invece intestato e plasmato sulla rivalità del binomio Federer-Nadal. Relegando il Nostro al ruolo di terzo incomodo e comprimario di lusso. Non predestinato a diventare -numeri alla mano- il G.O.A.T. che non solo non si è accodato al ritiro di Federer e Nadal, ma ha osato superarli nel palmares dopo la loro uscita di scena.

Pregiudizio No-Vax

In relazione alle vicende pandemiche, la longevità sportiva rivela anche un pregiudizio politico.

Nonostante il basso profilo tenuto, il rifiuto di vaccinarsi di Djokovic è stato argomento extra-sportivo dibattuto a livello mondiale. Ancorché personale, la scelta lo ha elevato ad icona divisiva, al centro di un durissimo scontro Pro-vax vs No-vax. Temendo la visibilità del caso, il livello politico-istituzionale lo ha usato per fare passare il messaggio della volontà di sanzionare la decisione di sottrarsi alle campagne vaccinali.

In barba al principio dell’autonomia dello sport, ha limitato la partecipazione di Djokovic ai tornei, applicandogli con rigidità le restrizioni negli spostamenti per i non vaccinati. Anche quando l’emergenza del virus era oramai finita, come nella clamorosa esclusione dagli Australian Open nel 2022, che il governo di Sydney ha voluto spettacolarizzare.

Che Djokovic a due anni di distanza sia tornato (e rimanga) ai vertici del tennis, smentisce il copione pandemico che voleva che il blocco forzato della carriera ne decretasse anche un finale inglorioso. A tal punto da cercare un nesso causale tra un (auspicato) calo dei risultati sportivi e il rifiuto a vaccinarsi, con gli eccessi grotteschi di virologi alla Roberto Burioni arrivati a gioire per le sconfitte di Djokovic.

Campione Orientale vs Sport Occidentale

Vi è infine un pregiudizio geo-politico\culturale. Trascende la dimensione personale e riguarda i Balcani Occidentali e la nuova Europa emergente ad Est, fuori e dentro l’Unione europea. È uno spazio che l’Occidente ha assistito nella lunga transizione post-comunista; ma dei cui cambiamenti e crescita tarda a prendere atto, e relega ancora in vecchi stereotipi superati. Djokovic è espressione di questo nuovo vento dell’Est, rivendica di appartenervi umanamente e sportivamente, al pari di una generazione di nuovi talenti che – da Nikola Jokić a Luka Dončić nel basket, da Zlatan Ibrahimović a Luka Modrić nel calcio – è l’opposto del cliché letterario ancora vivo nei media Occidentali, del balcanico genio-e-sregolatezza, votato alla splendida sconfitta.

Vi è tensione quando un campione (dell’Europa) Orientale domina il tennis che per storia, continuità con il passato, immaginario di riferimento è lo sport universale rimasto più ancorato alla cultura tradizionale Occidentale. Alle sue espressioni positive (i valori liberal-democratici) e negativi (paternalismo e senso di superiorità).

Darth Vader

Si fatica a comprendere che ad Oriente le vicissitudini di Djokovic vanno ad alimentare una narrativa che vuole che l’Occidente, non solo nello sport, cambi le regole del gioco (senza ammetterlo), per preservare posizioni predominanti che considera sue di diritto. Quel genio ribelle di John McEnroe si è chiesto cosa abbia fatto di male Djokovic per farne il Darth Vader del tennis. Forse, concentrandosi sul gioco e non sulle polemiche, è uscito dai vari ruoli assegnatigli dalla politica e\o dagli sponsor. Scomoda prova vivente che la fortuna di uno sport dipende da chi lo gestisce ma anche da chi lo pratica. Che il futuro del tennis lo scrivono non solo gli autori del copione. Anche gli attori protagonisti.

Perché Djokovic non è Darth Vader (ma un Campione Orientale)

Di Igor Pellicciari

La scarsa empatia dei media nei confronti di Djokovic riflette numerosi pregiudizi sportivi, politici e culturali, facendone, secondo John McEnroe, il Darth Vader del tennis. La prova vivente che il successo di uno sport dipende non solo da chi lo gestisce, ma anche da chi lo pratica

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