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Comprendere il fenomeno Matteo Salvini, per chi s’interessa di politologia, è senza dubbio importante e soprattutto interessante. Per farlo bisogna fare un passo indietro, e immergersi nella storia italiana del conservatorismo radicale. Prima vi è stato il Fascismo, poi il Msi, quindi il dissolvimento di quella tradizione in An e successivamente nel Pdl. È la logica del consenso che varia e evolve nel tempo, si dirà.

La grande novità della Lega di Salvini è che, in continuità con quanto ha costruito Umberto Bossi e Gianfranco Miglio, adesso la scelta di campo è divenuta netta e ideologicamente pura, mi si passi il termine. Non più un movimento trasversale e regionale, ma una forza politica nazionalista, tradizionalista, ultra conservatrice, e allacciata ad una nuova, antica e importante visione internazionale basata sull’eterno ieri.

Senza ipocrisie occorre dire che la destra nel nostro tempo ha un suo perché, ha un mondo che esige e reclama tale posizione politica, resa possibile da temi da sempre al centro dei ‘problemi’ che il radicalismo reazionario intende sollevare e risolvere, e la sinistra non può e non riesce neanche a nominare.

Le premesse sono profonde.

Faccio solo tre citazioni esplicative: Giovanni Gentile, che individuava nel nazionalismo l’idea che lo Stato equivale alla comunità naturale di un popolo che precede l’individuo; Charles Maurras, che sosteneva un socialismo particolaristico e senza eguaglianza; Carl Schmitt che definiva l’autentica democrazia l’identità sostanziale tra governanti e governati.

Basta entrare in un bar per capire che sono tre idee praticamente condivise da tutti.
Bene, oggi Salvini è l’erede contemporaneo di questa linea culturale e politica che si presenta in quasi tutti i Paesi europei con una ricetta antropologica e geopolitica specifica per affrontare di petto le questioni drammatiche della crisi di sovranità diretta dei popoli, della criminalità dilagante, del sistema fiscale asfissiante e soprattutto del sopraggiungere di flussi migratori illegali e incontrollati. C’è poco da fare. È così.

A colpire, però, più ancora di tutto questo è l’istinto e la lucidità con cui Salvini persegue questo progetto in casa nostra: polemizzando con una Chiesa italiana che ormai si è totalmente sganciata dall’idea pacelliana della ‘salus civitatis’, e facendolo in nome però di una classica ripresa di una cristianità sostanziale e non cosmopolita, iscritta nei sentimenti e negli umori anti umanitari delle persone.

Di qui l’accusa rivolta alla Lega di essere ‘populista’, intendendo con ciò che il movimento ha una concezione ‘intensiva’ della democrazia, ossia fondata su un sentimento che Jacques Maritain definiva ‘acefalo’ di appartenenza omogenea ad un soggetto comunitario chiuso in se stesso.

Quest’ultimo aggettivo ha una grande importanza per definire la destra, nuova o vecchia che sia: democrazia chiusa, società chiusa, cristianità chiusa, uguaglianza chiusa, perfino Europa chiusa. Chiudere per sopravvivere, insomma.

Per chi scrive non si tratta di nulla di scandaloso. Anzi, vedere Salvini che a Ferragosto gira per Ponte di Legno a stringere le mani dei cittadini, in un periodo non elettorale, fa pensare. In un sistema come il nostro in cui i deputati sono nominati, in cui i rappresentanti sono menefreghisti e completamente scollati dai rappresentati, e in cui nessuno si cura realmente della gente, il tasso di popolarità di Salvini è destinato ad aumentare e il suo metodo politico ad affermarsi. È vincente sui temi, giuste o sbagliate che siano le soluzioni, è vincente nel modo di fare, attualmente non applicato con tale potenza quasi ossessiva da nessuno.

Alcune domande devono tuttavia essere poste. La prima riguarda il futuro di questa destra. Per ora quello che si prospetta è un traguardo che punta solo a definire una posizione di frontale opposizione al sistema. I tre giorni del ‘Blocca Italia’ paventati per novembre non sono se non proseguire in questa direzione. Forse qualcosa dovrebbe essere detto e indicato però anche dal punto di vista costruttivo da chi domani vuole governare il Paese e non può farlo da solo. Le alleanze sono necessarie e si costruiscono pian piano con la stessa perseveranza con cui si crea il consenso. Ma di tale atteggiamento strategico non se ne vede traccia alcuna.

Inoltre, seconda domanda, al di là della determinazione comunicativa su immigrazione e anti Euro, viene di domandare quale sia il modo in cui si promette di gestire il rapporto inevitabilmente conflittuale o problematico che la Lega ha stabilito con il mondo atlantico e con la potenza delle lobby finanziarie mondiali?
Insomma è facile dire cose giuste e suggestive. E su questo Salvini ha dimostrato di avere, dal suo punto di vista, stoffa da vendere. Ma altra cosa è dire come fare a cambiare tutto, guadagnando le credenziali nazionali e internazionali per edificare concretamente il bene comune, in alleanza con le forze politiche diverse e maggiormente affini che si ha intorno, e contro dei poteri enormi.

Per compiere questo secondo step, in definitiva, ci vogliono due cose: un centro democratico non ostile e non renziano aperto a dialogare e moderare le posizioni leghiste, cosa che non dipende da Salvini, e un atteggiamento più aperto verso l’area popolare, cosa che dipende invece solo da Salvini.

La destra adesso deve scegliere se essere con il centro contro la sinistra, o se essere contro il centro e contro la sinistra. Solo nel primo caso è destra di governo, radicale o no che sia. Nel secondo finisce per rappresentare una variante folkloristica e inutile del grillismo.

La democrazia, in fin dei conti, vuole identità; ma nessuno può fare a meno del principio di rappresentatività condivisa e pluralista, se vuol contare e governare veramente. Quest’ultimo presupposto, difatti, è indispensabile per avere accesso alla legittimità operativa del potere, non restando esclusivamente un follower che nasconde i voti presi in una cassetta di sicurezza e tira sassi nelle finestre di Palazzo Chigi.

Che cosa (non) mi convince di Salvini

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