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Mentre il gotha internazionale riunito a Davos per il Forum economico mondiale si interrogava sui destini più immediati del mondo, Jia Guide, ambasciatore cinese in Italia, cercava di infondere ottimismo. “Il mercato cinese, un’opportunità per il made in Italy”: questo lo “strillo” del Msesaggero per sintetizzare le intenzioni della principale potenza industriale del pianeta.

Sfida, per la verità, impegnativa, considerato quanto sta avvenendo ai confini dell’Europa. Dove una lunga scia di sangue unisce Paesi – dalla Russia all’Ucraina, da Israele alla Palestina e ai suoi vicini libanesi, dall’Iran al Pakistan, per non parlare poi di quanto sta avvenendo nel Golfo Persico, lungo la rotta del Canale di Suez – non fa dormire sogni tranquilli. Ben vengano allora dichiarazioni rassicuranti se contribuiscono a indicare una possibile prospettiva, che non sia quello del confronto militare, diretto o indiretto, tra le principali potenze del pianeta.

L’incipit è quasi aulico: “bisogna concentrarsi sulla costruzione di una comunità umana per un futuro condiviso, sostenendo un multipolarismo mondiale equo e ordinato e una globalizzazione economica inclusiva e che vada a beneficio di tutti, di pari passo con il processo di modernizzazione cinese. Insieme per un mondo più pacifico, sicuro, prospero, aperto, inclusivo e bello”. Difficile non essere d’accordo. Anche se tutto ciò, considerata la situazione reale, somiglia maledettamente a un ossimoro.

“La Cina”, precisa l’ambasciatore, “non cerca di cambiare l’ordine internazionale” (ma il presidente russo Vladimir Putin è stato informato?), “né intende crearne uno nuovo”. Tutti i Paesi, infatti, “sono uguali indipendentemente dalle loro dimensioni”. Di conseguenza, la loro “sovranità ed integrità territoriale” devono “essere rispettate”. Per questo è necessario sostenere “il sistema internazionale con l’ONU al centro e l’ordine basato sul diritto internazionale” per poter usufruire pienamente dai vantaggi che derivano dal “multilateralismo e da un’economia mondiale aperta”. C’è ancora tanto da fare per “rafforzare la cooperazione sulla governance globale” in tema di commercio internazionale, rilancio degli investimenti, riorganizzazione delle supply chain, transizione verde e lotta al cambiamento climatico.

Parole che vanno comprese e, per quanto possibile, decriptate.

La Cina, infatti, non sta vivendo un momento particolarmente felice. Sebbene le sue prospettive più immediate possono destare invidia: tasso di crescita previsto per il 2023 sia pari al 5,2 per cento. Sono invece gli indicatori di medio periodo che lasciano intravedere cambiamenti radicali. Prima della grande crisi finanziaria del 2007-2008 (fallimento della Lehman Brothers e crisi dei sub-prime) che ha cambiato il corso della storia, il suo tasso di sviluppo aveva subito una crescita costante: passando dal 7,7 per cento del 1999 al 14,2 del 2007. Da quell’anno, invece, il ciclo aveva subito un’inversione di tendenza: nel 2020, in coincidenza con il Covid-19, appena l’1,7 per cento. Poi un andamento altalenante.

A incepparsi era stata soprattutto la macchina estera: il grande motore dello sviluppo cinese. Nello stesso periodo l’attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era diminuito dal 9,9 per cento del prodotto interno lordo a un modesto 0,2 per cento nel 2008. Per poi strisciare sul fondo: un valore medio annuo dell’1,4 per cento fino allo scorso anno. Le cause? Il rallentamento del commercio mondiale da un lato, ma soprattutto l’inversione del rapporto tra i valori della bilancia commerciale (export di beni – import) e le altre poste delle partite correnti. Fino al 2008 queste ultime davano un contributo positivo, mentre a partire da 2011 si è registrata un’inversione di tendenza. Nel 2022, per esempio, di fronte a un attivo commerciale pari a 668 miliardi di dollari, l’avanzo delle partite correnti, per l’accresciuto peso negativo dei servizi e dei redditi primari (maggiori redditi pagati all’estero), si era ridotto del 40 per cento.

Al di là dei tecnicismi, cosa mostrano questi andamenti? La forza cinese è quella che le deriva dall’essere l’hub industriale del Pianeta. Da questa posizione privilegiata deriva un forte surplus della bilancia commerciale, usato sia per sostenere il proprio commercio estero (servizi, redditi primari e secondari) sia per essere poi investito all’interno del Paese. Gran parte del boom edilizio della Cina ha quest’origine finanziaria. Ne deriva che se la situazione internazionale si inasprisce, se a un periodo di pace si sostituiscono i venti di guerra, che sconvolgono gli equilibri geopolitici complessivi, quel surplus diminuisce. Facendo venir meno quell’ossigeno che è essenziale per un Paese come la Cina, che ha bisogno di un tasso di crescita consistente per far fronte alle proprie interne contraddizioni.

Esiste, quindi, una relazione diretta tra distensione internazionale e possibile crescita economica, sia a livello globale che locale. Circostanza di cui la Cina non sembra aver tenuto conto in modo adeguato. Finora il suo atteggiamento è stato ambiguo. Sulla scena internazionale ha puntato a contenere la presenza internazionale dell’Occidente, pur senza scoprirsi politicamente. Nei confronti della Russia di Putin ha mostrato accondiscendenza, come si è visto nelle votazioni sulle risoluzioni a proposito dell’invasione dell’Ucraina. Guarda al Sud globale, cercando di favorirne le pulsioni irredentiste, ma senza scoprirsi più di tanto. Salvo tentare di contenere il predominio del dollaro nelle transazioni internazionali. Ma i rapporti di forza (6 per cento delle riserve mondiali per lo yuan con tro il 60 per cento della valuta americana) sono tali da rendere quasi proibitivo questo obiettivo. Memore, ancora, del conflitto degli anni Sessanta, è guardinga soprattutto nei confronti dell’India, di cui soffre la concorrenza economico-finanziaria e demografica. Ma questa sua apparente “furbizia” non sembra aver prodotto i frutti sperati.

Lo si è visto chiaramente a proposito dello Yemen. L’accordo tra l’Arabia Saudita e l’Iran per porre fine alla lunga guerra civile condotta dagli Houthi (il gruppo in prevalenza sciita foraggiato dalla Repubblica islamica di Ali Khāmeneī), accordo che la stessa Cina aveva fortemente favorito, non ha certo portato la pace. Al contrario gli attacchi contro le navi commerciali da parte degli stessi Huthi stanno provocando la dura reazione occidentale, in un susseguirsi di bombardamenti contro le basi da cui partono le aggressioni. Azioni che stanno sconvolgendo i traffici commerciali, con un riflesso immediato specie nei confronti delle economie dei Paesi europei. I cui costi di approvvigionamento, specie per quanto riguarda le materie prime e i prodotti agricoli, cono destinati a crescere, alimentando il processo inflazionistico.

Tutto questo rischia di ritorcersi nei confronti della stessa Cina. Ancora nel 2022 le sue esportazioni dipendevano per il 60 per cento dal commercio mondiale con le economie avanzate e solo per il restante 40 per cento con quelle del Resto del mondo. Mentre l’avanzo commerciale raggiungeva, nel primo caso, l’87 per cento, contro uno striminzito 17 per cento per la parte restante del Pianeta. L’Occidente è ancora la piattaforma logistica più importante del futuro sviluppo cinese. Di cui la stessa Cina dovrà tener conto nell’elaborare la propria politica estera. Le prospettive indicate dall’ambasciatore cinese sono del tutto condivisibili. Specie per quanto riguarda il rispetto dell’integrità territoriale, il diritto internazionale e via dicendo. Richiedono, tuttavia, qualcosa di più di una semplice declamazione. Richiedono comportamenti coerenti volti a contrastare le possibili devianze. Che finora la Cina – ed è questa la contraddizione – non sembra, invece, aver voluto contenere.

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