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A pochi mesi di distanza dalla strage al settimanale satirico Charlie Hebdo, Parigi e l’Europa intera hanno vissuto venerdì sera un nuovo momento di terrore. Un gruppo di jihadisti dello Stato Islamico, armato di tutto punto, ha condotto per le strade della Ville Lumière una vera e propria azione militare, con diversi attentati sincronizzati che hanno causato la morte di oltre un centinaio di persone.

Perché la Francia è nel mirino jihadista? Quali sono le ragioni politiche e culturali di quella che ha, per certi versi, i tratti di una guerra civile? E cosa non ha funzionato nel lavoro dell’intelligence e della polizia transalpine durante gli attacchi che hanno insanguinato la capitale francese?

Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Jean-Pierre Darnis, analista, docente universitario, esperto di cose francesi e vicedirettore del Programma Sicurezza e Difesa dell’Istituto Affari internazionali (Iai).

Perché lo Stato Islamico ha colpito di nuovo Parigi?

Ci sono tre ragioni, intrecciatissime. La prima è di natura esterna. Dal 2011, con l’operazione in Mali, la Francia ha esplicitato una chiara visione geostrategica che si oppone al terrorismo islamico e alla creazione di un cosiddetto “califfato” alle porte dell’Europa. Soprattutto nel corso degli ultimi anni, Parigi ha dimostrato di essere forse l’unico Paese a utilizzare in modo pronto lo strumento militare al fianco degli Usa. Un impegno in cui si può collocare anche l’intervento in Siria, che nei giorni passati è andato intensificandosi. Dopo aver iniziato i boombardamenti nel Paese – prima lo faceva solo in Iraq – dalla settimana scorsa la portaerei Charles de Gaulle è arrivata nel Golfo Persico, per rendere più efficaci ed efficienti gli attacchi contro l’Isis.

Le altre ragioni quali sono?

C’è una motivazione politica. La Francia è in piena campagna elettorale per le elezioni amministrative che si terranno a dicembre. Questo attacco potrebbe scompigliare i programmi dei socialisti di François Hollande e dell’Ump di Nicolas Sarkozy. Fa senz’altro il gioco del Front National di Marine Le Pen e, in senso più generale, di chi propone un nuovo nazionalismo e vuole i nostri Stati ripiegati su se stessi. E poi, infine, in Francia, e in particolar modo in città come Parigi, alcuni figli di immigrati arrivati alla seconda o terza generazione si fanno sedurre da idee radicali, che con l’Islam e la religione c’entrano ben poco. Si tratta di un modo di sfogare la propria insoddisfazione e cercare la loro identità. Ovviamente è il modo più sbagliato.

In cosa differisce questo attacco dai precedenti?

Oltre agli aspetti militareschi, con Charlie Hebdo il bersaglio era ideologico, quasi prevedibile. In questo caso, invece, si è scelto di colpire nel mucchio. Non credo molto alla pista dell’attacco mirato, ma piuttosto che ci siamo trovati di fronte a follia pura, sebbene premeditata.

Da cosa dipende questa reazione verso il Paese che li ha accolti? E perché la comunità musulmana non riesce a isolarli?

C’è un problema sociale, culturale ed economico. Queste persone cercano un loro posto nella società. Faticano a trovarlo.

Di chi è la colpa?

Mettendo da parte ogni valutazione scontata sull’impossibilità di giustificare qualsiasi tipo di violenza, da accademico dico che servirebbe un deciso investimento nell’università per creare una filiera di lingua e cultura araba. Il fatto che molti giovani maghrebini abbiano voglia di avere un rapporto più intenso con la propria cultura d’origine è normale. A fornirla, però, deve essere lo Stato, che invece per scarsità di fondi e, forse, per scarsa lungimiranza, ha delegato questo ruolo a enti privati, finanziati in modo poco trasparente anche da istituzioni riconducibili ad alcuni Paesi del Golfo, e moschee dove spesso si pratica un’interpretazione radicale della fede islamica. Anche il clima attorno a queste comunità non è dei migliori. Oggi in Francia c’è un fenomeno paragonabile a quello vissuto in Italia negli anni ’70, quando molti violenti venivano sì giudicati negativamente, ma in modo bonario, venendo considerati “compagni che sbagliano”. Si è notato dalla reazione che questi attacchi e in particolare quelli a Charlie Hebdo hanno scatenato. La Francia, invece, deve essere in grado di contenere questo fenomeno creando un arabismo francese che, per ragioni culturali e storiche, non è poi impossibile da coltivare.

È ipocrita dichiarare guerra all’Isis e poi fare affari con alcune petromonarchie accusate di finanziare indirettamente il jihadismo, come fa Parigi e non solo?

Lo sarebbe se fossimo in un mondo ideale. Vuol dire che dobbiamo rassegnarci? No. La soluzione a questo problema esiste, ma anche in questo caso passa da una maggiore cooperazione europea. Finché tutti i Paesi dell’Unione si faranno una concorrenza spietata per agevolare la propria industria, nessuno andrà per il sottile. Se, invece, saremo capaci di dialogare, miglioreremo senz’altro l’efficienza dei nostri rapporti con questi Paesi, legando le nostre esportazioni a un meccanismo di valutazione politica e valoriale. La possibilità c’è: quando viene colpita Parigi e a commuoversi sono tutte le capitali del Vecchio Continente, vuol dire che uno spirito europeo esiste. Dobbiamo solo tirarlo fuori.

Cosa non ha funzionato a Parigi? L’intelligence e la polizia transalpine sono giustamente sotto accusa?

Userei estrema prudenza. Chi parla oggi lo fa in modo troppo semplice. L’attacco è certamente riuscito, ma ciò non vuol dire che si tratti di un fallimento. Essere un passo avanti a chi opera in modo così subdolo non è facile e il rischio di essere colti di sorpresa è sempre in agguato, anche nel caso di attacchi organizzati nel minimo dettaglio, come questo.

C’è chi ha detto che, ad esempio, anche le azioni della polizia francese, iniziate troppo tardi, abbiano lasciato molto a desiderare, perché ci sono regole e protocolli “democratici” da rispettare che sono opposti alle modalità usate dai jihadisti.

Io dico: per fortuna. Ovviamente si tratta di parole provocatorie. Ma non sono sicuro che la nostra società voglia davvero tutti gli strumenti più adeguati. Ora siamo di fronte a una reazione emotiva, ma non dobbiamo mai dimenticare che non viviamo e non vogliamo vivere in uno Stato totalitario. Un recente rapporto parlamentare dice che sono migliaia i cittadini francesi che sono stati indottrinati in Medio Oriente. Andrebbero pedinati sempre. E forse un uso più intenso della tecnologia per monitorarli costantemente ci tutelerebbe un po’ di più. Ma fino a che punto dobbiamo spingerci? E siamo poi sicuri che ciò sarebbe sufficiente ad impedire nuovi attacchi? La posta in gioco è alta e riguarda anche la nostra libertà. Perciò credo che tutte le soluzioni vadano vagliate con molto equilibrio.

Cosa fare allora?

La prima reazione, quella più scontata, è stata quella militare. Buttiamo più bombe sulla Siria. D’accordo, ma risolverà il problema? Io dico di no. Non è sufficiente. Dobbiamo partire dall’assunto che le soluzioni nazionali non bastano più. Serve maggiore collaborazione fra Stati occidentali, necessiteremmo di uno scambio d’informazioni e di una strategia condivisa tra l’Europa tutta e gli Usa. Ma temo servirà ancora un po’ di tempo, perché ogni Paese, passata la tragedia, tende a tutelare la propria sovranità.

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