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In Italia c’è un eterno ritorno dell’eguale, una coazione a ripetere che è una delle cause non ultime del nostro declino. Eppure, come ammonisce il filosofo inglese Bernard Williams, la soluzione di ieri è quasi sempre il problema dell’oggi. Bisogna in questo senso ammettere che, nonostante la parola sia di moda, è difficile rottamare le idee consunte, che spesso sono diventate come un secondo abito e ci sembrano autoevidenti pur non essendo affatto più consone da un pezzo alla gravità dei nostri problemi.

Qualche giorno fa sono state anticipate le conclusioni del tradizionale Rapporto annuale della Svimez sullo stato dell’economia meridionale. Vuoi per la drammaticità dei dati, vuoi per l’abilità con cui sono stati comunicati (con il riferimento ad esempio alla Grecia), si può dire che il Rapporto, mai come questa volta, è riuscito a riportare all’attenzione dei media e quindi della politica la vecchia “questione meridionale”. Ma è riuscito anche a rispolverare tutti i luoghi comuni e le terapie sbagliate che da sempre hanno accompagnato quella “questione” e che hanno contribuito prima a farla incancrenire e poi a renderla disperata.

C’è stato tutto un insistere su fondi, europei e non, bloccati o da sbloccare; sulla necessità di “interventi statali”, di “politiche industriali”; sull’opportunità di creare enti e commissioni e persino un ministero ad hoc. Il tutto secondo la più classica visione dirigista, cioè di intervento dall’alto, che è stata reiterata a più non posso nel secondo dopoguerra e che ci ha portato dove siamo. Non è difficile immaginare che anche questa volta il fiume di soldi, se dovesse effettivamente arrivare, non accompagnato da un cambio di mentalità, prenderà direzioni sbagliate e non risolverà nessuno dei problemi meridionali.

Il fatto è che non dall’alto bisognerebbe partire, ma dal basso, cioè mettendo completamente nelle mani dei meridionali il loro destino. È un modo di pensare a cui i meridionali non sono abituati: anni e anni di Stato intervista, programmatore, gestore, spendaccione, paternalista, anche facendo la tara di clientelismi e corruzione, li hanno abituati a pensare che solo dall’alto, da Roma, può arrivare la risposta ai loro problemi. Da qui nasce quel “vittimismo meridionale” (Matteo Renzi ha parlato di “piagnisteo”) che è, più in concreto, l’incapacità del bambino di togliersi le dande e cominciare a camminare dritto e da solo, per usare una celebre immagine kantiana.

I meridionali, con la mentalità che hanno acquisito, con il rapporto malato che hanno instaurato con lo Stato (che è per loro una sorta di cassa a cui chiedere, a cui rivolgersi, verso cui implorare e rivendicare), sono appunto in uno stato di minorità infantile. Il loro infantilismo è il corrispettivo, sotto tutte le latitudini e in ogni tempo, del paternalismo di chi governa. Il quale, se fosse seriamente intenzionato a cambiare le cose, dovrebbe togliere ogni aiuto al piccolo (le “dande” appunto) e indurlo a camminare da solo.

Certo, non dovrebbe ostacolarlo con una tassazione esorbitante, con una burocrazia invadente, con una concorrenza inesistente o drogata, con una burocrazia invasiva o un’amministrazione della giustizia lenta e inaffidabile. Sono questi i problemi del Mezzogiorno, come quelli dell’Italia in generale. Al limite, al Sud sono moltiplicati. E sono accettati senza quelle resistenze che, nonostante tutto, in altre regioni della penisola continuano ad esserci. I problemi del Sud sono anche i problemi di una mentalità inadeguata. C’è troppo Stato e troppa richiesta di Stato, ma è più troppo forte l’idea di una “inferiorità” di fatto che è altamente deresponsabilizzante. Bisognerebbe cominciare a smuovere le acque.

A Renzi, per esempio, toccherebbe non ripercorrere le vie del passato: dovrebbe dire con chiarezza queste cose venerdì nella direzione del partito e poi metterle in pratica con l’azione di governo. Ma temo che non ne avrà la forza e il coraggio: sono cose troppo “impopolari”, almeno nel breve periodo che è quello cui guarda un politico. Temo che alla fine, passata l’enfasi di questi giorni, tutto tornerà come prima. In quella interminabile coazione a ripetere di cui parlavo all’inizio. E poi cosa succederà? Probabilmente la nave inclinerà sempre più, ma l’istinto di sopravvivenza non mediato dalla ragione spingerà i naviganti tutti verso una stessa parte, alla ricerca di un aiuto che lo Stato non sarà più in grado di dare. Potrà allora la nave sprofondare, in senso morale e materiale? Spero tanto di sbagliarmi.

Consigli (non richiesti) a Renzi sul Sud

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