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In quattro anni è cambiato tutto, ha annunciato Mario Draghi. Certo, non siamo più in pericolo e in mano alla speculazione. Ma se il suo bazooka della Bce avesse però anche inciso sulle scelte del risparmio? La domanda può sembrare ardita, quasi scandalosa, vista la statura dell’unico vero leader europeo, eppure va posta proprio perché il panorama finanziario è mutato, per le banche come per gli investitori. Si vive in una terra incognita: tassi zero, spread abbattuto, rendimenti dei titoli di stato negativi, nuove regole per i salvataggi, bilanci pubblici in sollievo. Indubbiamente sono quasi tutti elementi positivi e per certi versi irripetibili e, nella loro unicità, conducono ad una considerazione: il denaro è in libera uscita. Il Quantitative Easing dell’Eurotower ha infatti avuto tre meriti notevoli, come ricordato dal suo stesso presidente nell’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore: stabilire che esiste una politica monetaria comune capace di proteggere l’Eurozona, deprezzare la moneta unica rispetto al dollaro, abbassare l’onere del debito per i paesi più esposti al rischio sovrano. Questo ultimo aspetto solo per l’Italia significherà per il 2016 oltre 6 miliardi di euro in meno di interessi da pagare su 2.100 miliardi di debito pubblico, una solida spending review compiuta senza colpo ferire e senza tagli e lamentele lineari.

Ma quanto sono al sicuro risparmi e sportelli, ora che anche Bot e Ctz offrono rendimenti negativi e la notte dell’euro è passata? Per capirlo bisogna vedere come stanno gli istituti di credito europei, per effetto del QE e alla vigilia delle nuove normative sulla tutela unica dei depositi e il salvataggio degli istituti, nome in codice ’bail in’, termine inglese che indica come l’onere di quest’ultimo non sarà più  a carico dello Stato (bail out) ma di azionisti, di un certo tipo di obbligazionisti e di tutti i correntisti sopra i 100.000 euro.

Un’autorevole ed informata chiave di lettura del momento l’ha fornita il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo discorso all’ultima Giornata del Risparmio e conferma la visione di Draghi. ‘’Dal prossimo anno diventerà pienamente operativo il nuovo sistema europeo di risoluzione delle crisi (appunto, bail in e tutela unica dei depositi, ndr). Occorre essere consapevoli che le nuove regole tenderanno a comprimere sia la redditività sia la dimensione dei sistemi bancari, spostando verso il mercato dei capitali parte del finanziamento dell’economia reale e accrescendo il peso degli investitori istituzionali diversi dalle banche nel mercato del credito’’. Tradotto: le banche dovranno rivedere i loro modelli di business e i risparmiatori potranno anche scegliere di tenere i loro soldi lontani dai conti correnti e dagli investimenti offerti dagli sportellisti perché, in caso di default, potrebbero in parte perderli. Un cambiamento non marginale. Questo è uno scenario in cui, l’ingente immissione di liquidità della banca centrale europea (destinato ad aumentare) e nuovi vincoli comunitari non produrranno solo effetti positivi.

Se per i cittadini una via d’uscita, oltre alla borsa – che continua peraltro ad avere praticamente lo stesso numero di società quotate di 10 ani fa – ci sarà sempre, a cominciare  dagli immobili, per gli istituti di credito il discorso si fa molto più complesso. Soprattutto se si tasta il polso ad alcuni colossi e se si fanno i calcoli su quanto hanno speso i governi per mettere in sicurezza il settore del credito.

In Germania, la Deutsche Bank ha appena annunciato tagli per 10.000 posti di lavoro e 6,2 miliardi di perdite trimestrali, restando esposta a contratti in derivati per 54.700 miliardi di euro, un ammontare enorme, pari a venti volte il Pil tedesco e cinque volte quello dell’eurozona. Nonostante ciò, il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, continua a dettare legge a Bruxelles sulla politica bancaria Ue, fino ad imporre una brusca frenata al processo di attuazione dell’Unione bancaria europea: colui che qualcuno vorrebbe al posto di Angela Merkel, preme per porre un veto sulla introduzione di una garanzia europea a tutela dei titolari dei conti correnti che fanno capo a una banca in grave crisi. Insomma, vuole che ciascuno si salvi da solo, salvadanai compresi. Una bella pretesa. Senza certezze per correntisti (partirà il fondo comune Ue di garanzia dei depositi?), banchieri (cosa comprare al posto dei titoli di stato negativi divenuti anche ‘no zero risk’?) e Tesori nazionali (quanto durerà ancora la corsa alle aste con interessi negativi?), tutti diverranno orfani del rendimento, proprio nel momento in cui si chiede ai privati di farsi carico della gestione delle crisi. Perché mai dovrebbero frequentare ancora una banca i risparmiatori senza certezze? Per salvarla se fallisce dopo che questa non è stata più in grado di offrirgli adeguati interessi? Sono domande scomode, ruvide, ma non campate in aria.

L’impressione è che la costruzione della vigilanza bancaria unica sia arrivata un po’ in ritardo, dopo che le norme comunitarie hanno fatto figli e figliastri. Prima si sono salvate le banche, poi gli stati e infine l’eurozona, ma le regole che ora i tedeschi vorrebbero imporre agli altri europartner puntano a cancellare quel poco di solidarietà che si è riusciti a costruire, in virtù del fatto che Berlino non vuole pagare i fallimenti altrui. Ma questa è una narrazione non corretta di quanto accaduto.

Quegli aiuti statali tanto temuti da Schaeble, in Italia, per esempio, non ci sono mai stati e semmai è vero il contrario. Le banche della penisola hanno versato circa 2 miliardi di euro alle casse statali, per remunerare la garanzia governativa su alcune obbligazioni bancarie e rimborsare Tremonti e Monti bond. I salvataggi delle banche sono invece stati realizzati ovunque, persino nel Regno Unito, che certo non è la patria dell’interventismo statale. Quando si è trattato di puntellare le fondamenta  di Rbs e Lloyds, Londra non ha esitato a spendere il denaro pubblico. Ancora oggi quell’investimento è ben lontano dall’essere ripagato. Nell’Eurozona poi il campione assoluto dell’aiuto di Stato alle banche è stata proprio quella Germania, oggi principale sostenitore del coinvolgimento dei clienti nelle crisi bancarie, ieri disinvolta applicatrice del sostegno pubblico alle banche. I lander sono ancora in piedi soltanto dopo l’impiego di quasi 280 miliardi di euro nelle banche domestiche: con indubbio tempismo, prima di annunciare il game over, Berlino ha utilizzato 64 miliardi di euro per ricapitalizzazioni dirette, 80 miliardi per l’acquisto di asset deteriorati e 135 miliardi per garanzie. A causa degli interventi per le banche il debito è salito tra il 2008 e il 2014 per un valore pari all’8% del Pil .

E gli aiuti hanno fatto salire l’incidenza del debito sul Pil in misura sostanziale (circa 20%) anche in Irlanda, Grecia, Cipro e Slovenia. Un impatto rilevante è stato osservato anche in Austria e Portogallo. In Italia e Francia, invece, l’effetto è stato quasi nullo. In valore assoluto, le maggiori ricapitalizzazioni pubbliche, secondo Eurostat, sono state nel Regno Unito (100 miliardi), in Germania (64), Irlanda e Spagna (62 ciascuno), Grecia (40). La classifica dei più ingenti acquisti di asset deteriorati vede al secondo posto, dopo la Germania, ancora il Regno Unito (40 miliardi), seguito da Spagna (32) e Belgio (22). Infine le garanzie sono state significative in Irlanda (284 miliardi), Regno Unito (158), Danimarca (145), Germania (135), Francia (92) e Italia (86). Dunque lo Stato, che ora non dovrebbe più occuparsi dei fallimenti bancari né dei soldi dei risparmiatori, ha avuto finora un ruolo cruciale di tutore del denaro altrui. Queste sono cifre da cui è difficile trarre una morale e men che mai una bussola per il futuro, ora che ‘tutto è cambiato’.

Una sintesi perfetta degli anni che abbiamo vissuto pericolosamente l’ha offerta un altro uomo Bankitalia, il vice direttore generale, Fabio Panetta, uomo con i piedi per terra: ‘’Se in Italia fossero stati effettuati interventi in rapporto al Pil pari a quelli della Germania, l’onere a carico delle nostre finanze pubbliche sarebbe ammontato a 130 miliardi di euro’’. Ecco, qualcuno spieghi a Berlino che non si può essere europeisti a corrente alternata coltivando solo i propri interessi. E’ in gioco non solo la tenuta del sogno europeo ma anche la tutela comune del risparmio, che nella Costituzione italiana è saldamente garantito. Nel completo grigiore delle regole che verranno, nell’assoluta incertezza su chi salverà cosa, nel deserto di ghiaccio dei tassi d’interesse, l’articolo 47 resta la cassetta di sicurezza per tutti gli orfani di rendimento. Almeno nel nostro Paese.

Cosa succede con tassi a zero e nuovi diktat tedeschi

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