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Il ’68 è stata una salutare rivolta planetaria. Era, nella sua sostanza, un movimento culturale. Espresso dai giovani, ce l’aveva con un mondo incartapecorito di adulti che non voleva capire di aver fatto (abbondantemente) il suo tempo.

Il ‘68 quindi era una sorta di febbre adolescenziale dopo le quali un ragazzo si trova cresciuto di 15 centimetri e scopre di avere i peli in faccia. Ma se le febbri da crescita, anziché quattro, fossero mille. E anziché caratterizzare sei mesi della vita di una persona, durassero quarant’anni, il ragazzo, con esse, non diventerebbe un uomo ma finirebbe al cimitero. La stessa cosa è capitata in Italia con il suo ‘68.

Altrove, in tutti iPpaesi del mondo, questo movimento è durato un anno o poco più. Poi si è stabilizzato con altre regole e altre leadership. Si è stabilizzata persino la rivoluzione francese o quella bolscevica, immaginiamo se il ’68 poteva rimanere a briglia sciolta per l’eternità.

Da noi invece il ’68 è ancora molto attivo, ben 47 anni dopo, in certi settori di attività (come certe aree del pubblico impiego e, in particolare, nell’insegnamento nelle aree metropolitane). Gli effetti si vedono, nitidamente, anche con la contestazione del ruolo dei dirigenti scolastici che successivamente chiamerò presidi, per comodità.

I presidi, intendiamoci bene, ci sono già e ci sono sempre stati. Solo che adesso sono ridotti a burocrati anziché essere dei manager della formazione scolastica. Passano le carte, non promuovono un istituto scolastico. Ecco perché i contestatori del ruolo rinnovato dei presidi sono quegli insegnanti che non sopportano nessuna guida, che ritengono di essere l’alfa e l’omega della struttura formativa. Autonomi come nessuno, al mondo, lo è.

Ricordo, a questo proposito, che quando il famoso direttore d’orchestra Arturo Toscanini scomparve, i suoi orchestrali decisero, anche in omaggio alla figura di un maestro che essi consideravano insostituibile, di suonare senza maestro. In fondo, pensavano senza dirlo, abbiamo suonato tante volte con Toscanini (guardando lo spartito, più che lui) che siamo benissimo in grado di suonare da soli. Andarono avanti senza un capo, per qualche mese ma poi si rassegnarono ad avere un nuovo maestro. Fecero questo dietro-front perché erano dei professionisti (professionista è uno che si accorge dei suoi limiti rispetto ai compiti che si è dato) e non dei sessantottardi (e, men che meno, dei sessantottardi irranciditi).

La scuola italiana manca di tanti cose. Ma soprattutto manca di dirigenti scolastici preparati, motivati e dotati di mezzi e strumenti per governare complessi alle volte enormi e che hanno sempre a che fare con delle persone che sono sempre più complicate dei bulloni. Se non fossi sicuro di nuocere (notate a che punto siamo arrivati!) alla giovane preside che è stata alla base del rinascimento di un liceo classico milanese, parlerei di questo caso. Agendo, a suo rischio e pericolo, al limite del suo mandato, ha introdotto nuove discipline facoltative, ha aperto le porte al meglio della società civile lombarda, ha spinto i professori più anziani ed autorevoli (ognuno dei quali era insediato ringhiosamente sull’isola della sua competenza) a parlare fra di loro, ha convinto i professori più feroci che si motivavano in base al numero di studenti che avevano sbaragliato, che il loro primo compito, non era quello di sbaragliare gli allievi ma di recuperarli, motivarli, invogliarli. Questo liceo, grazie a questa preside, in soli due anni, ha raggiunto risultati eccezionali. E non solo al suo interno. Perchè ha anche svegliato gli altri grandi licei milanesi che vivevano compiaciuti all’ombra del loro marchio, i quali, per evitare di essere scalzati nel loro prestigio, si sono anch’essi rimboccati le maniche. Il preside che conta infatti introduce inevitabilmente, fra le scuole,  la competizione. E la competizione (dovunque, non solo nella scuola) è come l’acqua che si muove. Se l’acqua ristagna, c’è solo la palude, la malaria, il ripiegamento, la rassegnazione, la povertà, il mugugno. E in quante scuole italiane l’acqua ristagna?

Qualche ragione però, coloro che non vogliono presidi dotati di maggiori poteri, ce l’hanno. Dicono: “Se diamo più poteri al preside-passacarte, quello cioè che troppo spesso abbiamo davanti, ci sarà il nepotismo, la lottizzazione, la burocrazia. Non sarà uni stimolo ma un freno”. Ma molti presidi attuali sono stati selezionati proprio per essere mediocri esecutori delle disposizioni ministeriali e incolori passacarte. Li volevano così, non solo il ministero, ma anche, e soprattutto, i docenti sessantottardi e vetero-marxisti (meglio sarebbe dire pateticamente nichilisti) e i loro sindacati (spesso sono la stessa cosa) che vedevano in un preside dotato di poteri, un antidoto al potere assembleare, dei vari collettivi, cioè di loro stessi, protagonisti dei  parolifìci estenuanti, popolati da coloro che vogliono bloccare ogni innovazione e sforzo (che non sia di pura e inconcludente agitazione). E ciò, cercando di non  darlo a vedere, coperti come sono dalla coltre di parole  che vengono da loro usate per togliere la parola a coloro che hanno qualcosa da dire, con le parole.

E’ proprio dando più potere ai presidi (e selezionandoli, d’ora innanzi, in base alle loro capacità culturali ed organizzative, e chiamandoli, nel contempo, a rispondere della loro attività ad un collegio ad essi sovrastante) è dando, dicevo, più potere ai presidi che si potrà rivitalizzare la scuola. Renderla cioè un’attività in sintonia con la società di oggi. Credo che abbia fotografato bene questo snodo un professore che, recentemente, su ItaliaOggi, ha detto: “Mio bisnonno era insegnante. Se potesse rivivere e gli mostrassi gli computer, gli iphone e i tablet che uso in ufficio, resterebbe sbalordito. Ma se lo portassi nella mia classe si sentirebbe a suo agio perché è tutto come ai suoi tempi, l’Ottocento”.

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