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L’ultima riunione Opec di Vienna della scorsa settimana ha avuto strascichi velenosi. Si è deciso per lo status quo: nonostante l’eccesso di offerta e la forte debolezza dei prezzi, si manterrà invariato a 30 milioni di barili al giorno il plafond di produzione. Si è scelto in pratica di avallare la linea saudita e dei Paesi del Golfo, che per molti osservatori potrebbe portare alcuni (non pochi) Stati membri del cartello ad abbandonare la nave e cominciare a giocare da free rider.

L’ASSE IRAN-VENEZUELA

Il ministro del petrolio saudita, Ali Naimi, ha provato a buttare la polvere sotto il tappeto. Gli ha fatto eco l’omologo emiratino Mohamed Suhail Al Mazrouei, che si è detto “molto soddisfatto” delle decisioni prese. C’è però un asse sempre più forte capeggiato da Iran e Venezuela, con a ruota Paesi africani come l’Angola e la Nigeria, che preme con forza per un innalzamento dei prezzi. La logica del resto è tranchant. A differenza di Arabia Saudita e Qatar, questi Paesi non possono sostenere strategie aggressive sul mercato, intaccando quelle riserve monetarie accantonate dai propri fondi sovrani basati sulle rendite petrolifere.

L’ECCEZIONE SAUDITA

Si tratta di un meccanismo che funziona da vero e proprio paraurti: i sauditi lo utilizzano, infatti, per mantenere il consenso sociale, i Paesi del Golfo come strumento di espansione economica. Solo il fondo sovrano saudita detiene 730 miliardi di dollari e può benissimo continuare a “sparare” sulla galassia dei produttori Usa di shale gas e tight oil ancora a lungo, anche al di sotto del break even price di riferimento. Cosa che, ad esempio, non può fare il Venezuela – il cui fondo creato dalle rendite del petrolio a malapena raggiunge il miliardo – né la Repubblica Islamica e neanche i Paesi africani che partecipano all’Opec, come la Nigeria, che detiene un fondo da 1,4 miliardi di dollari.

LE STIME

Secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, per coprire il proprio budget statale, la Nigeria avrebbe bisogno di un prezzo al barile tra 110 e i 118 dollari, il Venezuela tra i 115 e i 121 dollari. Siamo ben oltre anche le più ottimistiche analisi sulla risalita del mercato. Il tetto sull’output imposto e mantenuto di certo non aiuta, visto che il brent continua a viaggiare sui 60 dollari. Per questo c’è chi si è già stufato della linea stabilita a Vienna.

IL MESSAGGIO DI TEHERAN

Namdar Zangeneh, ministro del petrolio iraniano, ha lanciato due messaggi chiari. Il primo è che la Repubblica islamica è pronta ad aumentare la sua produzione di 1 milione di barili al giorno entro sei o sette mesi. Il secondo riguarda proprio la partita sui prezzi. L’Iran “non è soddisfatto dei prezzi attuali del petrolio”, ha ricordato il ministro, per il quale un prezzo giusto dovrebbe aggirarsi attorno ai 75 dollari a barile. Non sono in pochi, poi, a mettere in dubbio l’efficacia delle scelte Opec a trazione saudita. Un’analisi di questo tipo è arrivata qualche giorno fa da Greg Ip sul Wall street journal.

GUERRA FRAGILE

La guerra lanciata all’industria petrolifera Usa (che non è più quella che forse ricorda ancora Naimi sulla base della sua lunga esperienza in Saudi Aramco) non ha senso quando parliamo di una galassia di aziende d’estrazione. È vero, molti produttori sono stati effettivamente spazzati via dall’aumento dei prezzi e dalla fragilità del loro profilo finanziario, ma la flessibilità del sistema – ricorda Ip – e la sua maggiore propensione al rischio ha consentito una rapida riduzione delle torri di trivellazione attive e del personale, e la produzione petrolifera complessiva degli Stati Uniti, anziché diminuire, è aumentata.

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