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Secondo i dati forniti da Cent Com, gli Stati Uniti hanno condotto 2472 dei 2558 raid della Coalizione internazionale sulla Siria, il 95 per cento. Cent Com è il Comando Centrale americano che ha come area di responsabilità il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia Centrale, praticamente tutte le zone calde del pianeta: lo guida dal marzo del 2013 il generale a quattro stelle Lloyd Austin e ha sede alla MacDill Air Force Base, di Tampa, in Florida.

Cent Com è il comando operativo del Pentagono che ha gestito le disastrose operazioni di addestramento dei ribelli siriani da usare come boots on the ground in Siria; è il comando i cui alti ufficiali sono invischiati in uno scandalo fresco fresco sulle manipolazioni dei report di intelligence falsati positivamente prima di essere consegnati in mano ai legislatori.

Da Tampa si tiene costantemente il conteggio dei raid aerei compiuti dalla cosiddetta “Coalizione anti-IS”,  e cioè l’insieme dei Paesi che hanno aderito allo sforzo internazionale per bloccare l’avanzata del Califfo: ma forse, dati alla mano, è il caso di cambiare il modo di definirla. A tutti gli effetti, solo gli americani stanno portando avanti la campagna: ultimamente anche la Francia ha dichiarato che avrebbe colpito in Siria, ma ancora non lo ha fatto, e quel cinque per cento è rappresentato dai primi attacchi sul suolo siriano dell’Australia, un raid inglese indirizzato contro tre jihadisti britannici adeguatamente tracciati e qualche passaggio di caccia dei Paesi arabi che ora però hanno concentrato le proprie attenzioni sul teatro yemenita.

Dai dati del Pentagono si evince che in totale i raid sono stati 6900 tra Siria e Iraq. Messi a confronto con quelli diffusi dai sauditi sulla propria operazione in Yemen contro i ribelli Houthi, fanno ridere: in sei mesi i caccia dei Paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita hanno compiuto oltre 25 mila bombardamenti, quattro volte tanto nella metà del tempo. Certo, la quantità non fa la qualità: la campagna yemenita è un disastro che ha prodotto centinaia di vittime civili (mentre pochissime sono state quella della Coalizione anti-IS), ma è chiaro che il rapporto è struggente, se si pensa che quei seimila raid aerei rappresentano il nocciolo della contrapposizione esistenziale dell’Occidente al male assoluto rappresentato dal propagarsi senza controllo dell’ideologia del Califfo Baghdadi.

Morale: con i raid aerei soltanto non è possibile vincere. Lo hanno capito già i sauditi, che infatti per spostare l’equilibrio in Yemen stanno organizzando un’azione di terra ─ che in realtà sembra timida, anche perché gli eserciti di questi paesi sono tecnologicamente riforniti con i petrodollari, ma non hanno la minima esperienza in battaglia. Sull’altro fronte, quello nostro occidentale, a un anno esatto dall’inizio delle operazioni le conclusioni dicono: lo Stato islamico non è avanzato granché, ma non ha nemmeno perso il controllo di così ampie fette di territorio come auspicato. Serve dunque di studiare una strategia che vada oltre l’uso a terra dei valorosi curdi (tra l’altro rallentati dalla guerra turca al PKK, che non rappresenta tutti i curdi, ma…), dello scarsissimo esercito iracheno (che è forte solo nei report taroccati del Pentagono) e della pietosa strategia di addestrare “qualche” ribelle.

Tre giorni fa l’ex capo della Cia, il generale David Petraeus ha testimoniato davanti al Congresso americano per la prima volta dopo lo scandalo in cui finì coinvolto con l’amante Paula. Petraeus, dopo essersi scusato per il maldestro sputtanamento di informazioni riservate in conversazioni amorose, ha tenuto tre ore di lezione dottrinale sul disastroso approccio nella guerra al Califfo.

«La recente escalation militare della Russia in Siria è un ulteriore promemoria del fatto che, quando gli Stati Uniti non prendono l’iniziativa, altri riempiono il vuoto, spesso in modi che sono dannosi per i nostri interessi». Parte dal presente la disamina del generale, che incolpa gli Stati Uniti per la mancanza di iniziativa ─ è vero che i numeri dicono che la campagna aerea è quasi esclusivamente sulle spalle di Washington, ma per il generale (e per molti osservatori) non è comunque abbastanza. Petraeus ha una visione chiara: occorre creare safe zone sul territorio siriano in cui addestrare i ribelli locali ─ il generale, insieme a Hillary Clinton ai tempi segretario di Stato e a Leon Panetta capo del Pentagono, era tra quelli che consigliava alla Casa Bianca, inascoltato, di fornire armi a partner locali fin dal 2012. Occorre creare aree libere sia dallo Stato islamico che dalla Jabhat al Nusra (il gruppo qaedista siriano), ma anche dall’esercito del regime. Sulla linee del surge iracheno, con cui sollevò i sunniti locali contro al Qaeda nel 2006/2007, il generale dice che senza offrire protezione alla popolazione locale, quella non verrà mai dalla “nostra” parte. Occorre proibire a Bashar el Assad che i suoi elicotteri sgancino barrel bomb sulla popolazione, se non rispetterà l’ordine «impediremo all’aviazione siriana di volare: possiamo farlo, il nostro esercito può valutare come fermare gli aerei [siriani].

Petraeus ha una road map, una strategia che sembra chiara: dice che Assad dovrà lasciare il governo, ma non subito ─ è una linea condivisa con diverse diplomazie mondiali, da ultimo il Regno Unito, che ritengono che il presidente dovrà essere presente durante la fase di transizione del potere. Ma, dice il generale, «la popolazione sunnita non vorrà mai sostenerci se non la sosteniamo noi in questo momento». Serve creare le condizioni per la ricostruzione, e non lo si fa guidando dei caccia a migliaia di metri di altezza..

@danemblog

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