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Al di là del rumore che ha provocato, cioè delle polemiche che ha scatenato, la decisione dei dissidenti del Partito Democratico di “non votare” la fiducia posta dal governo alla Camera sugli articoli della legge elettorale è un altro affare per Matteo Renzi.

Non votare non significa votare contro. Significa, come gli stessi dissidenti hanno precisato, astenersi o non partecipare alla votazione, non rispondere all’appello nominale per il sì o il no.

L’astensione al Senato equivale al voto contrario, contribuendo a determinare il cosiddetto quorum per la determinazione della maggioranza. Per non farsi conteggiare bisogna essere assenti, come fecero i comunisti con il primo dei due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti, nella stagione della cosiddetta solidarietà nazionale, per aiutarlo ad ottenere la fiducia, senza votarla appunto.

Alla Camera però è tutto diverso. Gli astenuti a Montecitorio abbassano il quorum, calcolato come maggioranza dei presenti e votanti, per cui il governo ha bisogno di meno voti per prevalere sulle opposizioni, anche se la distanza fra l’uno e le altre numericamente può accorciarsi.

Neppure per la fiducia, come per le leggi ordinarie, occorre la maggioranza assoluta, costituita dalla metà più uno dei membri della Camera, presenti e assenti, votanti e non votanti. D’altronde, è la stessa Costituzione, con l’articolo 64, a vincolare la validità delle “deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento” a due circostanze: che sia “presente la maggioranza dei loro componenti” e che le decisioni siano “adottate a maggioranza dei presenti”, cioè alla maggioranza semplice. “Salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”, aggiunge l’articolo 64. E speciale, cioè assoluta, è la maggioranza dei componenti dell’assemblea: quella, per esempio, richiesta come soglia minima dall’articolo 138, nella seconda votazione di ciascuna Camera, per “le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali”, fra le quali non rientra quella elettorale, che è ordinaria.

I dissidenti con la loro tattica di “non votare” la fiducia hanno quindi finito a Montecitorio per blindare Renzi, il quale a sua volta con i voti palesi di fiducia ha voluto blindare gli articoli della legge elettorale decapitando un’ottantina di proposte di modifica, e relativi rischi di votazioni a scrutinio segreto. Nella prima delle tre fiducie poste dal governo sul cosiddetto Italicum il quorum è sceso a 280 voti grazie a chi non ha risposto all’appello nominale, e i 352 sì hanno letteralmente sommerso i 207 no.

L’effetto, su Renzi, del clamoroso rifiuto dei dissidenti del suo partito di votare la fiducia non ha soltanto il carattere di un paradosso. Ha anche, o soprattutto, un aspetto di furbizia che contraddice il “coraggio” vantato a parole dagli avversari o critici del presidente del Consiglio, e segretario del partito.

La furbizia consiste nel fatto che, non votando contro, e contribuendo in fondo a fare uscire il governo numericamente e istituzionalmente indenne dalla vicenda, senza la crisi minacciata da Renzi a difesa della immodificabilità del testo della legge giunto alla Camera dal Senato, i dissidenti potrebbero difficilmente incorrere in azioni disciplinari di partito. Che Renzi, d’altronde, non ha neppure interesse ad intraprendere, o lasciare intraprendere dagli amici, bastandogli ed avanzandogli l’approvazione definitiva di quella che ormai si può ritenere la sua riforma elettorale. Approvazione, naturalmente, salvo sorprese, per quanto improbabili a questo punto, nella votazione conclusiva, dopo il passaggio di tutti gli articoli. Su quella, riguardante il complesso della legge, il governo dovrà tornare a correre i rischi dello scrutinio segreto, come ha già fatto del resto con esito largamente favorevole nelle due votazioni, appunto a scrutinio segreto, svoltesi martedì sulle pregiudiziali di costituzionalità e di merito poste dalle opposizioni.

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