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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori, pubblichiamo l’analisi di Tino Oldani apparsa su Italia Oggi.

Nel tentativo di sedare gli euroscettici, usciti vincitori nelle elezioni tenute in Gran Bretagna, Spagna e Polonia, Angela Merkel e Francois Hollande hanno preparato un documento comune. L’obiettivo è di modificare la governance dell’eurozona e renderla più incisiva, accentrando in capo a organismi europei vecchi e nuovi la gestione delle cosiddette riforme strutturali, soprattutto in materia di welfare e disoccupazione. In pratica, una robusta sottrazione di sovranità ai governi dell’eurozona, come auspica da tempo il governatore della Bce, Mario Draghi. Sulla stessa linea è schierato un documento del governo italiano, firmato da Matteo Renzi, inviato alla Commissione Ue e alla Bce come contributo al vertice di fine giugno dei capi di Stato e di governo.

I contenuti del documento franco-tedesco non sono noti per ora, quindi ingiudicabili, mentre è ben chiaro il metodo. Merkel e Hollande sanno di dovere offrire risposte convincenti al premier britannico, David Cameron, che è deluso dall’Europa, ha promesso agli inglesi un referendum per decidere dentro o fuori dalla Ue, e vuole ricondurre sotto il controllo del governo nazionale competenze che oggi sono in capo alla Commissione Ue, quali fisco, welfare, immigrazione e libera circolazione dei cittadini comunitari. In pratica, Cameron sta chiedendo di rivedere i Trattati europei, a cominciare da quello di Lisbona, che su queste materie hanno il valore di una costituzione sovranazionale. Ma, da questo orecchio, Merkel e Holande non ci sentono: riscrivere i trattati richiederebbe troppo tempo, dicono, soprattutto darebbe modo agli euroscettici di farne una crociata ostile, assai scomoda per chi come Germania e Francia deve andare alle urne nel 2017.

Per questo, invece di riscrivere i Trattati (che poi devono essere ratificati dai Parlamenti nazionali e, ove previsto, dai referendum popolari), Merkel e Hollande sono orientati a cambiarne la sostanza giuridica su alcuni punti, con dei regolamenti ad hoc. In pratica, la stessa strada seguita per il Two Pack, il Six Pack e il Fiscal Compact, regolamenti che hanno imposto vincoli demenziali come l’obbligo del pareggio di bilancio, l’abbattimento annuale di un ventesimo del debito nazionale, e così via. Vincoli che dal 2008 in poi hanno provocato austerità e recessione, da cui solo la Germania è uscita indenne, grazie al fatto che l’euro, sopravalutato per gli altri Paesi, non lo è mai stato per il suo export.

Già, l’euro. Come ha spiegato in due saggi magistrali il giurista Giuseppe Guarino, anche la moneta unica, benché prevista in origine dal Trattato di Maastricht (1993), è nata nel 1998 soltanto grazie a un regolamento (numero 1466/97), che giuridicamente aveva un rango inferiore ai trattati e non poteva prevalere su di essi, né sulle costituzioni nazionali, come invece è accaduto. Con il regolamento n. 1466/97, ha scritto Guarino, «vi è stato un totale capovolgimento nel rapporto tra moneta e realtà: secondo il Trattato di Maastricht, se vi è contrasto, è la gestione della moneta a doversi adeguare alla realtà. Mentre secondo il regolamento, è la realtà che si deve adeguare alla moneta». Non solo. Secondo il giurista, «l’euro è stato realizzato e imposto con un golpe, realizzato non con la forza, ma con fraudolenta astuzia». In pratica, la prima, grande cessione di sovranità nazionale in Europa (l’euro) si è potuta realizzare con un regolamento non votato dai Parlamenti, e che pochi hanno capito.

Tra questi pochi, spiega un bel libro di Angelo Polimeno («Non chiamatelo euro»; Mondadori), c’era Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro del governo di Romano Prodi, che firmò l’entrata dell’Italia nell’euro. «Il giorno dopo la firma, smaltiti i festeggiamenti, Ciampi sapeva bene qual era il tema che rischiava di aprirsi immediatamente: l’occupazione, la crescita, i costi sostenuti dalla società italiana per l’euro». Timori avveratisi, purtroppo. Testimone di quegli eventi, Paolo Peluffo, collaboratore di Ciampi, ha scritto nella biografia dell’ex ministro: «Maastricht e Patto di stabilità hanno origini e filosofie differenti. Maastricht è ancora compatibile con una visione keynesiana della politica economica. Ammettendo un deficit del 3% del pil, accetta l’idea che si possa finanziare con l’indebitamento almeno la spesa per investimenti. Il Patto di stabilità è invece decisamente antikeynesiano: un Paese in difficoltà, causata da bassa crescita, si sarebbe trovato a dover fare politiche più restrittive che in condizioni normali».

Ma se Ciampi sapeva, perché ha firmato? «Il Patto aveva un significato politico», lo giustifica Peluffo, «convincere la Germania ad accettare che l’euro si facesse, e assicurare alla Bundesbank che la sua visione conservatrice delle politiche monetarie si sarebbe estesa a tutta l’Europa». Il che, purtroppo, è puntualmente avvenuto. Ora la Merkel vorrebbe fare il bis, sempre con un regolamento, per imporre riforme che i Parlamenti nazionali non potrebbero discutere, né votare. Qualcuno glielo dica: errare humanum est, perseverare diabolicum».

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