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Ci siamo. Quasi. E forse. Joe Biden, vice-presidente degli Stati Uniti, politico misurato, per nulla scavezzacollo, sta per scendere in campo per la nomination democratica: un avversario – il solo, finora –, in grado di impensierire la battistrada Hillary Rodham Clinton, la cui marcia s’è un po’ appesantita tra scandali montati e antipatia naturale. Ma c’è pure chi vede in Biden un frangiflutti per Hillary, da mesi unico bersaglio di tutti gli attacchi repubblicani.

Secondo la Cnn, il presidente Barack Obama ha dato la sua ‘benedizione’ a Biden, durante una cena alla Casa Bianca, lunedì. Fonti di primo piano del partito democratico riferiscono alla rete all news che Biden ha pure visto Anita Dunn e Bob Baur, consiglieri fidati del presidente da dieci anni, coppia di guru nella vita e in politica.

Gli indizi di candidatura di Biden si cumulano. Nel week-end, il vice di Obama aveva incontrato Elizabeth Warren, senatrice del Massachussetts, vera ‘anti-Hillary’, popolarissima leader liberal, fustigatrice di Wall Street, che non ama per nulla la Clinton. La Warren ha deciso da mesi di non scendere in lizza, tradendo molte aspettative, ma un suo appoggio a Biden gli farebbe guadagnare molti punti e ne toglierebbe al candidato indipendente, il senatore ‘socialista’ Bernie Sanders, che guadagna terreno nei sondaggi, ma che non ha chance di nomination e tanto meno di elezione. Resta ai margini dei giochi, invece, Martin O’Malley, ex governatore del Maryland.

In realtà, è Hillary che perde consensi, a causa dell’Emailgate, cioè dell’utilizzo quand’era segretario di Stato (2009-2013), di un account di posta privato invece di quello ufficiale. Tra la mail sotto inchiesta, alcune contenenti materiale classificato o top secret, che non sarebbe stato adeguatamente protetto. In questo contesto, i democratici rischiano di ritrovarsi improvvisamente senza candidato: Biden offre un’alternativa affidabile e credibile.

Il vice-presidente è quel signore che, con rare eccezioni, vive con discrezione nell’ombra del ‘capo’, ma che sa di poterne prendere il posto da un momento all’altro, talora in circostanze drammatiche –è accaduto otto volte nella storia americana, quattro volte perché il presidente è stato ammazzato -.

Drammi a parte, che un vice diventi presidente, negli Stati Uniti succede: di rado, ma succede. Che ci provi, succede più spesso. Nel dopoguerra, quattro vice di presidente a fine corsa hanno tentato: Richard Nixon 1960, Hubert Humphrey 1968, George Bush 1988, Al Gore 2000. Ma solo uno ce l’ha fatta: Bush andò alla Casa Bianca, dopo otto anni nell’ombra di Ronald Reagan. In realtà, pure Nixon divenne presidente, ma nel ’68, contro Humphrey, dopo essere stato battuto nel ’60 da John F. Kennedy e dopo un periodo di quarantena.

Dunque, il tentativo di Biden, dal 2009 ‘numero due’ alla Casa Bianca, non sarebbe sorprendente: secondo ilo New York Times, l’ex senatore del Delaware –sei mandati consecutivi, 36 anni di fila dal 1973 al 2009 – ha avuto una serie di incontri con donatori e leader democratici che non hanno ancora dichiarato d’appoggiare Hillary.

Biden sarebbe fortemente spinto a questa scelta da un promessa fatta al figlio Beau, morto di cancro al cervello a maggio, a soli 46 anni. A incoraggiare il padre sarebbe anche Hunter, il figlio minore: “E’ ciò che Beau vorrebbe che io facessi”, avrebbe confidato il vice-presidente a Michael Thronton, un suo sostenitore. A giugno, il Wall Street Journal parlò delle pressioni su Biden di John Cooper, che raccolse fondi con successo per Obama.

La scomparsa di Beau era stata una vera tragedia per la famiglia Biden: primogenito, avvocato, maggiore in Kosovo, aveva poi seguito le orme del padre in politica con i democratici ed era stato fino a gennaio ministro della Giustizia del Delaware.

Politico navigato, bianco, esperto di politica internazionale, Biden era stato, nel 2008, una scelta ben azzeccata di Obama, relativamente inesperto, nero, a digiuno di affari mondiali. Per aspirare alla Casa Bianca, gli manca un po’ di carisma e un po’ di vivacità –sa essere noioso-; e deve stare attento alle gaffes, sempre in agguato nelle sue sortite.

Il Time gliene pubblica addirittura una ‘hit parade’ – ma l’esercizio tenta e diverte molte testate -: per fare un complimento a Hillary, che vuole essere presidente, le dice che come vice avrebbe fatto meglio di lui; per sostenere l’Obamacare, la riforma della sanità, si lascia scappare un’espressione ‘forte’; e fa il verso al presidente della Corte Suprema, il giudice Roberts, che sbaglia a leggere il giuramento di Obama. Ma c’è da dire che le gaffes sono diminuite con l’età e l’esperienza.

Lo scarto di Hillary sui suoi attuali improbabili rivali s’è ridotto da 60 punti a mento della metà, mentre il vantaggio sui potenziali antagonisti repubblicani s’è assottigliato. La crescita di popolarità del battistrada conservatore Donald Trump fa pure leva sul fatto che l’ex first lady paga gli scandali e comincia a fare i conti con l’ostilità che buona parte dell’opinione pubblica degli Stati Uniti nutre per lei.

Si sapeva dall’inizio che, sull’altare mediatico delle primarie democratiche, qualche agnello doveva offrirsi all’aquila rapace della competizione 2016: Biden può assumersi il ruolo, pronto a diventare ruota di scorta del partito e dell’Unione.

Democratici: Biden quasi c'è, ruota di scorta o frangiflutti

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