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La settimana scorsa è stata caratterizzata dal timore che la frenata della Cina avrebbe avuto effetti deleteri sull’Europa. In effetti, il rallentamento è brusco: da una crescita del 10% l’anno ad una del 7% (molto più verosimilmente del 5% poiché i dati della contabilità nazionale cinese vanno presi con le molle).

Occorre, però, metterla in un contesto: il Pil cinese è la metà di quello dell’Unione Europea ed il Pil pro-capite l’ottantaseiesimo delle classifiche delle Nazioni Unite (quindi, tra i Paesi a basso reddito). La frenata è la prova di forti tensioni politiche, economiche e sociali all’interno del Celeste Impero, avrà implicazioni di non poco momento sul bacino del Pacifico, e sui Paesi esportatori di ferro, rame e petrolio. In Europa, colpirà chi vende alla Cina macchine utensili (Germania), lusso (Francia), vini pregiati (Francia).

Evitiamo, però, di cadere nella stessa trappola in cui siamo finiti a causa della Grecia: farsi distrarre dai problemi più gravi dell’Europa, in primo luogo quello della crescita e dell’occupazione. Nel fine settimana scorso, all’ultima tornata delle stime del “gruppo del consensus” (venti istituti di analisi previsionale, tutti privati, nessuno italiano) ha dipinto un quadro preoccupante: un tasso di crescita che nel 2015 arriverà al massimo all1,4% per l’eurozona (0,6% per l’Italia, come quello stimato per la Grecia); un tasso di disoccupazione dell’11% per l’eurozona (12,7% per l’Italia).

Il varo a fine settembre della Legge di Stabilità dovrebbe essere l’occasione per focalizzare su questi temi. Soprattutto per gli investimenti in infrastrutture che creano, nel breve periodo, occupazione tramite l’utilizzazione di capacità produttiva non impiegata e, soprattutto, nel lungo periodo incidono sulla produttività.

Inutile gingillarsi, come ha fatto recentemente un quotidiano, con titoli a sei colonne “Dal Piano Juncker due miliardi all’Italia”. Di miliardi, e di procedure più efficaci, ce ne vogliono molto di più. In un Paese industrializzato ad economia di mercato, la spesa per assicurare manutenzione e graduale ammodernamento del parco infrastrutture dovrebbe essere pari al 3,5% del Pil, livello toccato dall’Italia alla fine degli anni Ottanta. Tra il 1992 ed il 1997 (secondo analisi della Banca d’Italia) è giunto a circa l’1,8% a ragione delle politiche di riduzione della spesa per raggiungere gli obiettivi del Trattato di Maastricht.

Dall’inizio della crisi finanziaria del 2008 ha subito una contrazione ulteriore del 39%. Se le strade e le autostrade sono ingolfate, se i treni ritardano, se siamo ai primordi della banda larga, tutto ciò incide negativamente sulla produttività.

Non siamo i soli in Europa: in Germania un terzo dei ponti ferroviari ha più di cento anni (sono stati costruiti per spostare eserciti nella prima guerra mondiale), negli Stati Uniti un ponte ha in media 42 anni; eppure negli stessi Stati Uniti si stima che ogni anni 100 miliardi di dollari sono sprecati in perdite di tempo a ragione di ingorghi stradali, aeroportuali e simili. Il B20 (il braccio operativo del G20) stima nei venti Paesi del gruppo occorrono spese tra 15 ed i 20 trilioni di euro per ammodernare le infrastrutture.

A fronte di queste cifre impressionanti, pare che al Ministero delle Infrastrutture nuove riorganizzazioni e nuove procedure stiano paralizzando la già esistente “calma piatta”; con il risultato che i pochi spiccioli di cui si dispone non vengono spesi. In questo quadro di “distrazione” da uno dei problemi centrali del Paese, la Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA) ha sospeso ormai da circa otto anni i corsi sull’allestimento e valutazione delle infrastrutture.

Il letargo continua e si aggrava.

Senza la sveglia delle grandi opere il Pil resterà in letargo

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