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L’Europa della moneta unica deve puntare a uno sviluppo che ha nella domanda interna il motore propulsore e non farsi guidare, come una piccola economia, da obiettivi di esportazioni.

Lo studio dal titolo “In lode delle importazioni” pubblicato sulla newsletter di Nomisma mira a capovolgere l’attuale inclinazione europea per cui esportare è un bene e importare è un male inevitabile, senza considerare che “Affidarsi all’export e contenere l’import è però la ricetta per comprimere il tenore di vita dei cittadini.

Come nella Grande depressione degli anni 30, la scelta di guardare all’estero come un grande bacino di opportunità – promuovendo le esportazioni – e al tempo stesso come una grande minaccia, in quanto fonte d’importazioni, alla nostra produzione nazionale, è al più un piano B, una soluzione di second best con cui provare ad alleviare la disoccupazione che accompagna la lunga fase di recessione-stagnazione che è frutto del doppio fallimento europeo, quello del mercato e quello della politica.

A testimoniare che questa è la tendenza dominante in Europa, la bilancia commerciale con l’estero – che fino al 2010 si caratterizzava per un sostanziale equilibrio – nel 2014 ha restituito dati record per l’euro zona che è arrivata a superare la Cina – il super esportatore mondiale – in valore assoluto e in percentuale con un saldo da 280 miliardi di euro, pari al 2,8% del PIL. Un avanzo che è destinato ancora a crescere quest’anno.

Per quanto tempo ancora il resto del mondo resterà indifferente davanti a una politica di crisi, che fa leva sulla svalutazione del tasso di cambio, come è quella adottata dall’area euro? Essa potrebbe essere assecondata solo se ritenuta transitoria, e cioè se si mettessero in pratica – nel contempo – le misure atte a correggere gli squilibri commerciali intra-europei, ma le tendenze in atto dicono che non è così.

Non ci si dovrà, quindi, sorprendere<span style=”line-height: 1.714285714; font-size: 1rem;”> se gli organismi internazionali e le grandi economie danneggiate dal deprezzamento dell’euro (principalmente gli Stati Uniti) torneranno, prima o poi, a chiedere che l’euro zona imbocchi la strada del rilancio della domanda domestica, a partire dalla Germania.</span>

A fare i conti con questa deriva mercantilistica, frutto della massimizzazione della quantità di esportazioni, è soprattutto il tenore di vita dei cittadini: per vendere all’estero in quantità notevolmente superiori a quanto si acquista è necessario comprimere la domanda interna e svalutare.

Lo scopo dell’inserirsi nei traffici mondiali non sono le esportazioni, bensì le importazioni. È con quest’ultime, infatti, che si innalza tanto il benessere dei cittadini – che possono usufruire di beni e servizi a prezzi più bassi dei prodotti nazionali – quanto la profittabilità delle imprese che beneficiano di una più ampia disponibilità di risorse tecnologiche. In tale ottica, l’export continua comunque a rivestire un ruolo fondamentale, seppur strumentale, come traino del potere d’acquisto da spendere sui mercati internazionali.

Per questi motivi, al fine di valutare il commercio estero non è tanto importante quanto si esporta, ma l’efficienza con cui l’input/esportazioni si converte in output/esportazioni: quante importazioni si ottengono con 1 euro di esportazioni, in altri termini la ragione di scambio (data dal rapporto tra prezzi all’export e all’import).

E rispetto a questo, ciò che conta è la qualità delle esportazioni che consente di vendere all’estero a prezzi elevati. Ciò risulta evidente del caso delle imprese italiane: quando la competizione di qualità cresce dell’1%, la probabilità di aumentare i prezzi all’esportazione cresce del 4,5%, quella di lasciarli invariati – o diminuirli – si contrae del -2%.

Guardando invece alla crescita della competizione di prezzo, quando questa si intensifica dell’1,% la probabilità di aumentare i prezzi all’export si contrae al -6,5%, quella di ridurre o di mantenere invariati i prezzi si attesta rispettivamente al 3,5 e al 3%: è evidente come puntare sulla competizione di costo vada a scapito della ragione di scambio e, quindi, del benessere di un Paese.

Ma non sarà riduttivo fare delle esportazioni un semplice strumento per ottenere potere d’acquisto? Non sono le esportazioni traino di produttività? Vi è un’influenza biunivoca fra esportazioni e produttività, ma per poter esportare e investire all’estero è necessario essere, ancor prima, produttivi nel proprio Paese: l’internazionalizzazione di un’impresa è la cartina di tornasole della sua più elevata efficienza rispetto ai produttori non in grado di andare all’estero.

Chi riesce a internazionalizzarsi lo fa perché ha una produttività superiore alla soglia minima di efficienza necessaria per competere in modo profittevole nel mercato globale. È dunque dalla produttività che nasce la possibilità di esportare, e non viceversa.

In questa prospettiva appare sempre più stringente la necessità, per l’Europa, di riguardare alle proprie priorità: la zona euro, allo stato attuale, si presenta come la somma di tante piccole economie, in competizione reciproca, che puntano all’aumento dei volumi di export alla ricerca di un traino che venga dall’esterno.

L’Europa è un grande mercato di dimensioni simili agli Stati Uniti. Deve puntare a uno sviluppo fondato sulla domanda interna, orientato quindi alle importazioni più che alle esportazioni. Se non c’è questo cambio di prospettiva, i cittadini europei cominceranno sempre più a domandarsi dove siano i benefici dell’integrazione.

Il report integrale è disponibile <a href=”http://www.nomisma.it/index.php/it/newsletter/scenario/item/850-9-aprile-2015-in-lode-delle-importazioni” target=”_blank”>qui</a>

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